mercoledì 14 dicembre 2016

Il Sole 14.12.16
Vittoria decisiva ma non ancora la fine del conflitto
di Alberto Negri

Aleppo sarà una città liberata ma non libera. Resteranno a lungo le ferite di una battaglia combattuta senza pietà da una parte e dall’altra. Non sappiamo neppure che verbo usare: Aleppo è «caduta» come titolano alcuni o è stata «riconquistata» dalle forze lealiste, come diremmo in altre circostanze, per esempio quando sarà presa Mosul, roccaforte irachena dell’Isis? Forse solo i siriani, lacerati e divisi, hanno il diritto di dare un nome a questa guerra: per noi è soprattutto una tragedia immane. Sul piano militare per i ribelli, tra cui le milizie jihadiste legate ad Al Qaeda, questa è una sconfitta epocale, per Assad una grande vittoria, non la fine del conflitto.
Ad Aleppo il presidente siriano, appoggiato dai russi e dalle milizie sciite Hezbollah, sta per prevalere dopo un accordo sottobanco, mediato da Mosca con la Turchia e gli Usa, per l’evacuazione dei ribelli.
L’assedio è cominciato il 19 luglio del 2012: allora si poteva ancora salire sull’antica cittadella, la Qalat, nonostante già divampassero gli scontri tra i lealisti e i ribelli. Quell’estate, dall’alto delle mura, vidi per l’ultima volta Aleppo quasi intatta. L’anno dopo dalla Qalat la città appariva piegata in due, gli antichi mercati distrutti e in ottobre venne fatto saltare il minareto della moschea degli Omayyadi. Mille anni di storia. Milioni di persone rimasero intrappolate tra le forze del regime, arroccate a Ovest, e le milizie islamiche, insieme all’Esercito siriano di liberazione (Els), asserragliate ad Aleppo Est. Ma l’esercito di Damasco, che può contare sull’aviazione, ha cominciato da tempo l’assedio della parte orientale in collaborazione con gli alleati russi applicando la tattica nota come “starve or submit”, che il New York Times ha descritto così: «Rendere la vita intollerabile e la morte probabile. Offrire una via di fuga a quelli che se ne vanno o si arrendono. Oppure uccidere chiunque resti».
Non siamo comunque alla fine della guerra: i ribelli sono ancora nel Nordovest, nell’area strategica di Idlib e nel Sud del Paese. Al confine con la Turchia ci sono i curdi che hanno stabilito l’autogoverno nel Rojava contrastato duramente dall’esercito di Erdogan. A Est lo Stato Islamico, nonostante le sconfitte subite, ha ripreso Palmira e rimane insediato a Raqqa. Anche con la caduta di Aleppo il conflitto mantiene tutto il suo esplosivo potenziale geopolitico: l’Isis è il bersaglio di tutte le coalizioni in campo ma in realtà la posta in gioco è la spartizione in zone di influenza del cuore del Medio Oriente. Cominciato nel 2011 con una legittima protesta popolare contro il clan alauita di Assad, lo scontro si è rapidamente trasformato in una guerra per procura delle potenze sunnite contro l’Iran sciita, insieme alla Russia lo storico alleato di Damasco. Turchia, monarchie del Golfo e Occidente hanno sostenuto i ribelli ma quando Obama nel 2013 ha rinunciato a bombardare Assad di fatto ha acconsentito che la Russia riempisse il vuoto lasciato dall’America. E ora Mosca ha una sorta di “protettorato” sulla Siria. Agli Usa resta l’Iraq. La Turchia, ridimensionata, può contare sul via libera di Putin a bastonare i curdi. Mentre gli attori locali potranno continuare a uccidersi se non urtano troppo le sfere di influenza: in vista non c’è la pace ma solo l’ipotesi di un conflitto a più bassa intensità. Come l’assedio dei mille giorni di Sarajevo, quello di Aleppo segnerà una ferita difficile da rimarginare: la morte di una città in questi casi coincide con quella di una nazione.