Corriere 14.12.16
Mattatoio Aleppo
di Lorenzo Cremonesi
«Addio,
 addio. Qui abbiamo finito di vivere. Queste sono le mie ultime parole. 
Potrei morire da un momento all’altro». Iniziano o terminano quasi tutti
 così i tweet postati dai siriani nella sacca di Aleppo Est. Sono 
messaggi crudi, inevitabilmente brevi, di grande effetto. C’è Lina 
Shamy, una voce nota tra i civili nelle zone controllate dalle milizie 
che si oppongono al regime di Bashar Assad, che lancia addirittura un 
appello: «Umani in tutto il mondo non dormite! Potete fare ancora 
qualche cosa, provate adesso. Bloccate il genocidio!». Bana Alabed, la 
bambina di sette anni che da qualche tempo si fa sentire dal portatile 
della madre ci avvisa che questo è il «mio ultimo messaggio». E annota 
che ha pianto quando ha visto il papà ferito dalle bombe. Abdul Kafi 
Alhamado, maestro di inglese, posta un video in cui si sentono 
esplosioni, concitato parla di strade pericolosissime a causa dei raid 
aerei russi, testimonia di civili sotto le macerie che nessuno può 
aiutare: «Le rovine delle loro case diventeranno le loro tombe». Monther
 Etaky, barba sfatta, occhiaie nere come la pece, dice, con una sorta di
 flemma rassegnata, «spero almeno di potervi raccontare la mia morte in 
diretta». I Caschi Bianchi, come sono conosciute da ben oltre un anno le
 squadre locali di soccorso alla gente nelle case bombardate, che il 
Corriere è riuscito a contattare negli ultimi giorni, sino a domenica 
sera ci raccontavano di vere e proprie «selezioni» da parte dei militari
 siriani lealisti, assieme ai miliziani sciiti dell’Hezbollah libanese, 
che si preoccupano di arrestare uomini e ragazzi tra i civili in fuga. 
«Li prendono, li picchiano, quindi spariscono. Forse li hanno già 
fucilati», ci diceva venerdì uno di loro, il quarantenne Ismail 
Alabdullah.
Intanto fanno capolino foto inquietanti: si vedono 
decine di uomini in piedi con i lacci delle scarpe spariti, alcuni 
scalzi. Non possono correre, non possono fuggire. Il regime di Damasco 
sostiene che li vuole arruolare. Ma ormai anche il generalmente 
super-cauto Ban Ki-moon ha denunciato allarmato «le voci e i racconti di
 atrocità commesse contro un grande numero di civili ad Aleppo». Amnesty
 International parla apertamente di «crimini di guerra». Nelle ultime 
ore le accuse dell’Onu si sono fatte molto più precise. Fonti locali 
rimbalzate al Palazzo di Vetro riportano di «almeno 82 civili uccisi, 
tra loro 11 donne e 13 bambini». Ma la cifra sembra davvero 
conservativa. Emergono racconti di squadracce lealiste che entrano nelle
 case aprendo il fuoco in modo indiscriminato. «Siamo estremamente 
preoccupati per la sorte dei civili intrappolati in quell’inferno. Non 
hanno alcun rifugio sicuro. Abbiamo testimonianze che raccontano di 
persone uccise a sangue freddo nelle proprie abitazioni e per le strade 
mentre cercavano di fuggire», sostiene Rupert Colville, portavoce Onu 
per i diritti umani.
Scene dall’inferno, vengono in mente 
Stalingrado, Varsavia durante la Seconda guerra mondiale, e più di 
recente Grozny e Beirut nel pieno del conflitto civile, sino a Mosul 
presa da Isis nel giugno 2014. Intanto anche Mosca e Damasco accusano i 
«terroristi» di utilizzare i civili come «scudi umani» e compiere 
massacri. Eppure, sono ormai i soldati pro-Assad ad avere la meglio. 
Sino a due settimane fa erano segnalate 250.000 persone nelle aree 
tenute dai ribelli ad Aleppo Est. Ora il loro numero parrebbe sceso a 
meno di 50.000. Gli ultimi sono asserragliati in un’area di appena 2-3 
chilometri quadrati: assetati, affamati, sporchi, infreddoliti, 
disperati.
Alla fine ad Aleppo i morti della repressione della 
dittatura siriana, sostenuta in modo determinante da Russia e Iran 
(senza di loro Bashar Assad sarebbe caduto già da tempo), potrebbero 
essere centinaia, se non migliaia. Lo testimoniano da oltre un anno le 
vittime dei bombardamenti condotti con criminale precisione da Mosca e 
Damasco persino contro ospedali e cliniche di fortuna. Un massacro che 
ricorda quello condotto dal padre di Bashar, Hafez Assad, nel 1982 
contro la città ribelle di Hama, costato forse tra i dieci e ventimila 
morti. Con la differenza che oggi, grazie alla comunicazione 
globalizzata, siamo in grado di venirne a conoscenza in tempo quasi 
reale. Uno strumento che aiuta a superare le censure di Damasco e la sua
 politica di concedere i visti solo ai media «graditi».
Un pallido
 barlume di speranza si è alzato ieri sera con la prospettiva di un 
accordo per l’evacuazione dei civili dalle ultime zone sotto assedio 
grazie alle intese tra Turchia e Russia. Due corridoi umanitari 
potrebbero venire aperti verso la Aleppo Ovest lealista e le zone 
controllate dai ribelli nella provincia di Idlib. Ankara annuncia un 
campo di tende per 80.000 profughi. Ma altre volte questi tipi di intese
 si sono esauriti in nuovi bagni di sangue. Lo stesso Assad ripete di 
voler porre fine in modo drastico e radicale alla presenza dei 
«terroristi». Per il momento pare avere mano libera: è ormai terminato 
il sostegno americano ai gruppi di ribelli moderati, la prospettata 
nuova armonia tra Donald Trump e Vladimir Putin gli garantisce ampio 
margine di manovra.
La Siria rimane un Paese gravemente 
destabilizzato, martoriato da brutalità indicibili, lacerato da desideri
 di vendetta. Impossibile tornare allo status quo pre-2011. I massacri 
di Aleppo paiono destinati a radicalizzare ulteriormente gli oppositori 
al regime in chiave filo-Isis. L’agonia di Aleppo potrebbe rappresentare
 non la fine della guerra in Siria, bensì l’inizio di una stagione ancor
 più violenta.
 
