Il Sole 11.12.16
Le due facce dei 1000 giorni
Il bilancio del governo Renzi
Si è preoccupato del consenso immediato più che del futuro del Paese
di Luca Ricolfi
Della
politica economica del governo Renzi si possono dire molte cose, a
seconda del punto di osservazione e a seconda delle proprie convinzioni.
A me, ad esempio non sono piaciuti gli innumerevoli bonus e sussidi che
sono stati distribuiti con l’evidente scopo di generare consenso
elettorale, un punto su cui l’ex premier Mario Monti ha giustamente
attirato l’attenzione al momento di spiegare il suo No al referendum
costituzionale.
Al contrario, ho molto apprezzato alcune riduzioni
del carico fiscale sui produttori, e persino un provvedimento da molti
contestato come l’abolizione della tassa sulla prima casa.
E
tuttavia, se vogliamo tentare un bilancio dei 1000 giorni del governo
Renzi, la strada non può essere l’elenco più o meno salomonico delle
tante cose buone e delle tante cose discutibili che ci sono passate
sotto gli occhi nel triennio 2104-15-16. Un bilancio è fatto di
addizioni e sottrazioni, ma soprattutto di pochi numeri fondamentali,
che sintetizzano l’andamento di un’impresa, di un’istituzione, di un
governo in un determinato arco di tempo. E in quest’ultimo caso, quello
di un governo, i numeri essenziali sono quelli dei conti pubblici.
Ebbene,
se facciamo questa operazione, il bilancio appare decisamente negativo.
Nel triennio renziano, nonostante la stabilità dei prezzi, sono
aumentate le entrate nominali della Pubblica amministrazione, è
aumentata la spesa pubblica primaria, è aumentato lo stock del debito
pubblico. Le cifre esatte sono incerte perché mancano i dati completi
del 2016, e i numeri del 2017 sono ovviamente ipotetici. Ma resta il
fatto che, comunque si facciano i calcoli, i segni sono quelli: un po’
più di tasse, un po’ più di spese, un po’ più di debito. Pur avendo
ridotto molte imposte e tagliato molte spese, il governo non è riuscito a
resistere alla tentazione di aumentare altre entrate (ad esempio quelle
che pesano sul risparmio) e inventare nuove spese (alcune sacrosante,
altre di natura elettorale). Di qui il paradosso per cui, a fronte di
innumerevoli (e sbandieratissimi) tagli di imposte e di spese, il peso
della Pubblica amministrazione sull’economia è rimasto ai livelli
altissimi che aveva toccato ai tempi dei governi precedenti. L’attesa di
una riduzione del perimetro della Pubblica Amministrazione, che
liberasse risorse per il settore privato, è andata sostanzialmente
delusa.
Fin qui credo che i critici abbiano ragioni da vendere.
Alcuni di essi, tuttavia, si spingono decisamente più in là, e arrivano a
tracciare un quadro apocalittico dell’Italia che esce da tre anni di
governo Renzi. Ho sentito con le mie orecchie, in televisione, leader
del fronte del No parlare di impoverimento, di aumento della
disoccupazione, di un’Italia che uscirebbe stremata dalle politiche
degli ultimi anni.
Questa diagnosi è radicalmente sbagliata, e
soprattutto è incompatibile con la prima, quella che sottolinea il
deterioramento dei conti pubblici. Proprio perché ha puntato su
politiche espansive, il governo Renzi ha prodotto sia un peggioramento
dei conti pubblici (circa 100 miliardi di debito in più) sia un
alleggerimento dei bilanci privati, innanzitutto familiari. Il potere di
acquisto delle famiglie è aumentato di oltre il 3%; le famiglie in
grado di risparmiare sono passate dal 17,2% del totale al 24,4%; le
famiglie in difficoltà, che alla fine del mese devono fare debiti o
attingere ai risparmi, sono praticamente dimezzate: erano il 30,2% nel
bimestre gennaio-febbraio 2014, sono scese al 17,4% nel bimestre
novembre-dicembre di quest’anno. Detto un po’ crudamente, l’essenza
della politica del governo uscente è stata di dare un po’ di ossigeno a
famiglie e imprese attraverso un ulteriore deterioramento dei conti
pubblici. Un indirizzo che trova un preciso riscontro in un altro numero
sintetico, quello dell’andamento del Pil: nei 1.000 giorni del governo
Renzi il Pil è cresciuto di circa l’1,8%, più o meno la metà
dell’aumento del reddito disponibile in termini reali. Lo scarto è stato
pagato con più debito pubblico e, temo, ci costerà un aumento degli
interessi sul debito, del resto segnalato da tempo dall’aumento degli
spread con la Germania e con la Spagna.
Perché le cose sono andate così?
La
risposta maliziosa è che, come molti (non tutti) i suoi predecessori
Renzi si è preoccupato del consenso immediato più che del futuro del
Paese. Ma c’è anche un’altra risposta, meno maliziosa e forse più
inquietante. Renzi e il suo ministro dell’Economia hanno voluto credere
in una teoria che promette di conciliare le esigenze del presente con
quelle del futuro, e proprio per questo gode della massima
considerazione fra i politici. Detta in due parole, la teoria dice: la
spesa in deficit è la scintilla che può far ripartire il motore della
crescita, che a sua volta permetterà di ridurre il debito.
Credo
sia venuto il momento di prendere atto che la teoria non ha funzionato, e
che la scommessa basata su di essa è stata perduta. Se non fosse così,
l’Italia non sarebbe in stagnazione, e non continuerebbe a occupare le
ultimissime posizioni in Europa quanto a crescita del Pil.
Forse,
prima di intestardirsi con ulteriori iniezioni di denaro preso a
prestito dai mercati finanziari, varrebbe la pena guardarsi intorno e
riflettere sulle esperienze degli altri Paesi europei. Che mostrano una
realtà tanto nitida quanto difficile da digerire per la politica: nel
quinquennio 2010-2015 (l’ultimo per cui si hanno dati completi) quel che
ha fatto la differenza fra Paesi che crescono e Paesi che ristagnano è
innanzitutto la capacità dei governi di ridurre l’interposizione
pubblica. Il tasso di crescita medio dei Paesi che l’hanno ridotta è
stato del 2,5%, quello dei Paesi che (come l’Italia) l’hanno aumentata è
stato dello 0,4%. Uno scarto di circa 2 punti che sussiste comunque,
sia per i Paesi dell’Eurozona sia per i quelli che ne stanno fuori, sia
per i Paesi europei più ricchi sia per quelli meno ricchi.
Che
questo fosse il nodo, sembrava pensarlo lo stesso Renzi, che all’inizio
della sua avventura prometteva drastiche riduzioni delle tasse e delle
spese. C’è da augurarsi che, chiunque sieda a Palazzo Chigi in futuro,
capisca che quelle promesse avevano un senso e, purtroppo, attendono
ancora di essere realizzate.