il manifesto Alias 11.12.16
Questo canone così tragico e mosso
«Umanisti
italiani», Millennio per Einaudi. Da Petrarca a Valla, da Pico a
Machiavelli, l'Umanesimo rivisitato in chiave contemporanea da Ebgi e
Cacciari
di Massimo Natale
Se torniamo a certe
pagine di Eugenio Garin – per esempio quelle affidate a un agevole
libello come La cultura del Rinascimento, uscite in prima battuta nella
Propyläen-Weltgeschichte edita nel 1964 – vi leggiamo che una tale epoca
è segnata anzitutto dalla «coscienza della nascita di un’età nuova, con
caratteri opposti a quelli dell’età precedente», una «coscienza
polemica» la cui cifra è la «volontà precisa di ribellione, un programma
di distacco da un mondo vecchio per instaurare altre forme di
educazione e di convivenza, un’altra società e diversi rapporti tra uomo
e natura». Lontanissimo da ogni presentimento di una «bella età de
l’oro» e da ogni rappresentazione oleografica dei secoli della prima
modernità, il mondo rinascimentale si presenta allora, per Garin, «più
enigmatico e inquieto che limpido e armonioso», un cosmo nel quale «il
senso tragico della vita e una religiosità scavata» si precepiscono
anzitutto «nella grandezza delle forme michelangiolesche».
Virate o
estese alla cultura propriamente umanistica fra Tre e Quattrocento – a
ulteriore conferma della loro efficacia – queste parole potrebbero fare
da ottimo viatico anche a chi sfogli Umanisti italiani Pensiero e
destino, a cura di Raphael Ebgi, con un saggio di Massimo Cacciari
(Einaudi «I millenni», pp. CVI-558, € 85,00). Il volume è approntato in
forma di antologia, disposta per temi fondamentali – otto sentieri, dal
rapporto fra Vita activa e Vita contemplativa alla Metaphysica alla
Teologia poetica – di volta in volta preparati da un cappello
introduttivo, storico-interpretativo. Si compone così una sorta di
breviario umanistico, che spazia da Machiavelli a Pico, da Bessarione a
Giorgio di Trebisonda, da Landino a Poliziano, non avvalendosi peraltro
soltanto di stralci di opere già a loro agio nel canone, ma anche di
glosse, appunti o pagine di diario (con l’aggiunta preziosa di un paio
di trouvailles inedite, fra cui un brano latino di Pico in calce a una
lettera a Battista Guarini, ritrovato da Franco Bacchelli nel codice
Capponiano della Biblioteca Apostolica Vaticana).
In partenza Garin e Vasoli
A
orientare scelte e intenzioni ermenutiche è comunque, da subito,
l’articolato studio di Cacciari – che prende non a caso le mosse proprio
dal nome di Garin e da quello di Cesare Vasoli – con l’obiettivo di
Ripensare l’umanesimo. A cominciare dalla necessità di limitare o
sorpassare senz’altro le «riserve, diffidenze e incomprensioni, quando
non aperte critiche», che la filosofia contemporanea ha riservato a
questo periodo della storia europea. L’intervento di Cacciari si
potrebbe in effetti leggere in buona parte – libro dentro il libro –
come il tentativo di ripercorrere la lunga parabola di una mislettura
profonda, secondo la quale Umanesimo implicherebbe – essenzialmente ed
erroneamente – uno «spirito conservatore», una «visione essenzialmente
antitragica» dell’esistente e un ideale di «paideia
totalizzante-armonica». Per capire quanto sia diverso, qui, lo sguardo
gettato sui nostri umanisti, basterebbe considerare come venga servito
fra gli altri, da Cacciari e Ebgi, un Petrarca. Immediatamente scelto
per aprire il primo capitolo antologico – dal titolo molto eloquente di
«Umanesimo tragico» – ecco il Petrarca di una lettera a Ludwig van
Kempen, impegnato a riconoscere, con maturo disincanto, la potenza di
Fortuna: «occorre lasciare che la fortuna faccia i suoi giochi (…). Per
vincerla, nessun’arma è migliore della sopportazione (…). Nessuna
speranza di quiete si trova in questo capo di fatiche, giacché la vita
dell’uomo non è solo milizia, ma guerra, e chiunque viene in questo
mondo, viene in un campo di battaglia». Saremmo cioè, già con Petrarca,
di fronte a uno fra i primi diagnosti della finitezza e debolezza
dell’individuo (un Petrarca con il quale inizia peraltro, secondo
Cacciari, il «canto-threnos di Europa: ed ecco allora il poeta dei
Fragmenta, con il suo sguardo sul Passato, accostato nientemeno che allo
Schicksalslied dell’Hyperion di Hölderlin).
Ciò che probabilmente
più affascina, nell’ampia ricostruzione proposta, è la scelta di
riavvicinarsi all’Umanesimo tenendo un punto di osservazione saldamente
‘contemporaneo’. Autori, opere e nodi non sono affrontati per
medaglioni, quanto piuttosto per linee: non sono ritratti in istantanea,
ma immagini in movimento. E infatti il risultato non è tanto un magari
nuovo e però statico quadro della cultura umanistica, ma una vera e
propria genealogia del moderno. Lo si capisce bene se si guarda,
anzitutto, alla questione del rapporto fra linguaggio e pensiero: «asse
portante», annota Cacciari, «dei momenti più alti» della speculazione
umanistica, nella prima e precoce coscienza che ogni argomentare e ogni
teoresi è anche un problema di «prassi linguistica» (ben in anticipo su
certe non distanti riflessioni, ormai novecentesche).
Il richiamo a Dante
Qui
è un altro il padre di ogni discorso sull’Umanesimo italiano, ovvero il
Dante del De vulgari eloquentia. Il quale – pur non presente nella
scelta antologica del volume – è più volte richiamato nelle pagine
introduttive, ed evocato anzi come il punto di partenza necessario per
ogni ritorno agli umanisti (un punto di partenza anteriore, dunque, al
più scontato ‘proto-umanesimo’ di Petrarca o Boccaccio e dintorni, e
indispensabile tanto più se si osserva l’epoca dalla specola di una
filosofia del linguaggio). Certo, il De vulgari eloquentia è un primo
atlante di dialettologia volgare: ma è, anche più, la sanzione
dell’uscita del linguaggio poetico dalla sua condizione limitante di
cognitio minor, di pensiero imperfetto o favola falsa. Il moderno sta
insomma imparando, già a quest’altezza, la «piena rilevanza cognitiva»
di un pensiero diverso, poetico, per immagini. Si intravede già, in
fondo al percorso, Leopardi: un altro nome che Cacciari spende a più
riprese, laddove vuole per esempio ricordarci come esperienza e
immanenza siano alla radice del pensiero di un Guicciardini (ed ecco
sfruttati i leopardiani Pensieri: lì Guicciardini «è forse il solo
storico tra i moderni, che abbia conosciuto molto gli uomini, e
filosofato attenendosi alla cognizione della natura umana).
Ma
Leopardi è nome talmente consustanziale – e non da oggi – alla
riflessione di Cacciari, che lo si può anche criptocitare nel definire
la filosofia di Lorenzo Valla – certamente uno dei perni del volume –
una «filosofia dolorosa, ma vera» (così il leopardiano Dialogo di
Tristano e di un amico, nelle Operette); o si veda infine la suggestiva
«amicizia stellare» che legherebbe insieme Leopardi e Alberti,
all’insegna di un comune pessimismo per così dire agonista. Speziare
l’Umanesimo col moderno si può, forse anzi si deve, se non si vuole
perderne alcuni tratti fondamentali, mantenendolo – con Nietzsche: anche
lui spesso chiamato in causa – sempre in bilico fra attuale e
inattuale.
Galleria iconografica
E si potrebbero indicare
molti altri annunci, presentimenti di futuro consegnatici dal pensiero
umanista: limitiamoci a scomodare almeno il suo carattere sempre
fortemente civile, nel suo porre costantemente al centro una comune
educazione, un dialogo duraturo fra Filosofia, Filologia ed Ermete (e
allora il nome da fare sarà, stavolta, quello di Aby Warburg, nel cui
segno si pone la splendida galleria iconografica che arricchisce il
volume, e che accompagna il lettore da Bosch a Benozzo Gozzoli, a
Giorgione ecc., suggestivamente commentati). Oppure, a come già tra
Ficino e Pico – con il supporto della Lettera ai Romani di San Paolo –
tramonti ogni possibile teodicea, nell’eventuale annullamento del libero
arbitrio umano da parte della volontà divina. O a come, in ultima
analisi, tra Machiavelli e Valla ogni azione umana sembri rivelare il
proprio vero fine nella più nostra, nella più moderna delle ragioni: la
ricerca della felicità, ovvero il principio di piacere.