il manifesto Alias 11.12.16
Givone, cinque dialoghi oppositivi sulle cose ultime
«Luce
d’addio» di Sergio Givone, da Olschki . Lucrezio e San Girolamo, Cecco
d’Ascoli e Francesco da Barberino, Kierkegaard-Adorno, Dostoevskij e
Turgenev, Celan e Heidegger
di Maria Fancelli
Sergio
Givone, filosofo e storico della filosofia, fine interprete di alcuni
grandi testi della letteratura europea, scrittore, autore di un
bellissimo romanzo d’esordio e di altre importanti prove narrative, ci
sorprende e ci inquieta con un nuovo libro e un nuovo genere: Luce
d’addio Dialoghi dell’amore ferito, Olschki (pp. VI-156, euro 15,00).
Titolo,
sottotitolo e copertina catturano l’attenzione del lettore con messaggi
diversi: il titolo annuncia il tema chiave che è quello della fine e
del congedo, il sottotitolo spiega che si tratta di dialoghi di un amore
ferito, mentre la copertina in bianco e nero affida a una celebre
incisione di Dürer una delle più conturbanti rappresentazioni del
rapporto tra amore e morte. Ma su copertina, titolo e incisione si
tornerà più avanti.
Il libro comprende cinque dialoghi che
rimandano ad altrettanti incontri, in parte avvenuti e in parte
immaginati, tra grandi figure del passato; meglio sarebbe dire che
comprende cinque atti unici con relative didascalie, dati documentali e
note di chiusura con informazioni biografiche e storiche sui
protagonisti principali. Di fatto i testi pertengono strutturalmente al
genere teatrale, lungo un versante che si potrebbe dire, in senso lato,
beckettiano. Si tratta comunque di qualcosa di diverso dal dialogo
filosofico più tradizionale e insieme di qualcosa di nuovo nel panorama
della letteratura teatrale italiana: nel senso che, se da un lato la
forma dialogica appare funzionale alla ricerca etica ed estetica di
Sergio Givone, dall’altro essa si esprime con la forza di una lingua
nutrita di poesia che lascia germinare invenzioni e messaggi
extra-filosofici. Proprio per questa loro natura i dialoghi-atti unici
di Givone richiedono fortemente una messa in scena, postulano voci alte,
scansione di enunciati e movimenti scenici a sostegno del processo di
ascolto e di visione.
Il traduttore della Bibbia
Dei cinque
dialoghi il primo (Eco di un’eco) vede incontrarsi il poeta latino
Lucrezio e San Girolamo traduttore della Bibbia; il secondo (Al Rogo!)
Cecco d’Ascoli, medico e filosofo arso sul rogo nel 1326 e il suo amico
giudice Francesco da Barberino; il terzo (Che fare) mette in scena la
visita di un ignoto professore a Kierkegaard, con epifania di Adorno; il
quarto (E se la Madonna Sistina) reinventa la discussione tra Fëdor
Dostoevskij e Ivan Turgenev davanti al Raffaello di Dresda; infine il
quinto (Quando il silenzio è complice) porta a confronto Paul Celan e
Martin Heidegger in un campo di sterminio.
Come si vede, si tratta
di luoghi, tempi e figure diversissime accostate in lunghe appassionate
discussioni sui massimi sistemi, e in particolare sul tema del nulla,
del nichilismo, della giustizia, della religione e dell’arte che sono
state la costante del lavoro di Sergio Givone. Non è però soltanto un
ritorno in forma dialogica sul rovello di una vita, ma piuttosto un
cambiamento di posizione dell’autore che sembra guardare ai suoi
personaggi ex alto e come a distanza, indicando nella giustapposizione
delle parti l’unica possibilità di articolare il processo di conoscenza.
Può
forse esserne un esempio il dialogo irrisolvibile tra San Girolamo e il
poeta Lucrezio. Il traduttore dei sacri testi che parla della colpa
dell’essere e il pagano Lucrezio che crede nella vittoria del bene,
restano su posizioni lontanissime. Lo stesso succede nel dialogo tra
Dostoevskij e Turgenev davanti alla Madonna Sistina, ovvero davanti al
quadro che ha accompagnato la nascita del Romanticismo tedesco e
alimentato infinite discussioni da Wackenroder a Schlegel. Pur nella
comune ammirazione per l’opera di Raffaello, i due scrittori si
confrontano a lungo su posizioni opposte. Il grande indagatore delle
profondità dell’io guarda oltre la superficie del quadro e pensa che gli
occhi della madre e quelli del figlio siano aperti sull’orrore del
destino che li aspetta; il secondo pensa invece che la Madonna e il
Bambino, in posizione centrale e come sospesi sulle nuvole, siano
semplicemente pronti a scendere dal cielo e ad entrare nella scena del
mondo, da sempre pronti alla vita così com’è «povera, casuale,
necessaria». Lo stesso avviene nel dialogo più inquietante del libro,
che vede di fronte, in un lager, Martin Heidegger e Paul Celan. Qui la
contrapposizione frontale è quasi insostenibile, mentre le parole di
Celan sulla poesia e quelle di Etty Hillesum sul mistero della vita
rendono davvero difficile pensare che la verità si manifesti, come si
legge nell’introduzione, «dileguando e sottraendosi».
In tutti e
cinque i dialoghi si ripetono gli stessi schemi oppositivi, si
susseguono e si dispiegano affermazioni contraddittorie, acrobazie
verbali e paradossi che spesso rendono problematico e teso l’ascolto.
Tanto che, alla fine di ripetute letture, si ha l’impressione che Givone
sia giunto a una soglia e a un momento drammatico della propria
ricerca: che voglia dirci che la verità può essere afferrata solo come
relazione oppositiva, come giustapposizione di parti che non hanno vita
separata, come indecidibile sfida verbale. Che voglia guardare in faccia
la finitezza e la potenza del nulla, la prossimità degli opposti,
l’unità del vivente, l’identità paradossale di umano e divino.
Fondatamente Arnaldo Pagnini ha parlato di recente di «ontologia della
contraddizione».
Così il turbato lettore ripensa l’insieme e torna
istintivamente all’inizio e all’incisione di Dürer in copertina, sulla
quale pochi anni fa un illustre patologo aveva espresso la sua
convinzione che «il grosso nodo che sporge dal giugulo della dama altro
non sia che un aneurisma, luetico, che usura lo sterno e affiora alla
superficie e che presto si romperà come ben sa la Morte, che irride da
dietro un albero i due protagonisti ignari e illusi» (Giorgio Weber, Le
voci della materia. Patologo tra gli artisti. II, Mauro Pagliai Editore,
2013). Non so se sia giusto leggere un libro sulla base della sua
immagine di copertina e magari leggerla come suggerisce Weber, ma certo
l’autore non è estraneo a quella che non è soltanto una felice scelta
grafica, così come non lo era nelle copertine dei precedenti libri. Un
profondo turbamento accompagna davvero l’intera lettura alla luce della
sua copertina.
Il giudizio di Baldacci
Leggendo questi
dialoghi ho pensato più volte alla prima prova narrativa di Givone,
Favola delle cose ultime (1998), che aveva trovato un lettore e un
recensore d’eccezione come Luigi Baldacci. Questi, proprio sulle pagine
di «Alias» (30 marzo 2002) aveva fotografato molto bene la forza e il
carattere quasi eccezionale di quel romanzo, dove proprio le cose ultime
erano viste dalla posizione di un ragazzino innocente figlio della
natura, della tradizione e della terra. Nella sua lucida recensione
Baldacci aveva fissato la natura di quel libro e il posto di Givone tra
filosofia e scrittura e sottolineato la fecondità di un incontro tra
filosofia e poesia che nella nostra letteratura veniva a prodursi tanti
anni dopo Leopardi.
Non saprei dire se Givone abbia più trovato la
felicità e la leggerezza di quell’esordio narrativo, anche perché il
libro di oggi è profondamente diverso da tutti i precedenti, tanto più
denso, difficile e coraggioso, frutto del lavoro di una vita. Credo però
di poter dire che la posizione di Givone tra filosofia e scrittura
letteraria è rimasta quella fissata da Baldacci; che il libro di oggi si
conferma tutto dentro l’orizzonte del nichilismo come esperienza
decisiva del Novecento, e che in questa posizione l’autore rinuncia a
ogni consolatorio autoinganno. Non rinuncia invece a continuare la sua
lunga appassionata percussione sulle cose ultime, mostra di non temerle e
di saper guardare all’essere come a un infinito tramonto inondato di
luce. Sono diverse le frasi alle quali si sarebbe tentati di rinviare
come a una sorta di sintesi del libro. Ne scelgo due tra le più
significative. La prima è affidata a Paul Celan: «…voglio dire che la
poesia, a differenza della filosofia, si prende cura
dell’insignificante, dello smarrito, del perduto. Si china sul quasi
nulla, non sul nulla». La seconda rimanda alla copertina ed è l’autore
stesso che ce la porge, riprendendola dalla Vita Nuova (XXIII, 17-28) di
Dante: «Morte, assai dolce ti tegno / tu dêi omai esser cosa gentile».