il manifesto Alias 11.12.16
Una ipotesi perfetta per il falò delle vacuità
Frutti
dell'incompetenza. Contro Chomsky e contro Darwin, Tom Wolfe nel «Regno
della parola» (Giunti) ha in un sol colpo scoperto l’origine del
linguaggio: paleoantropologi, scienziati cognitivi, studiosi
dell’evoluzionismo e filosofi del linguaggio possono tirare i remi in
barca
di Francesco Ferretti
La scienza può tirare
un respiro di sollievo: Tom Wolfe nel suo Il regno della parola
(Giunti, pp. 192, euro 19,00) ha trovato il tempo e l’agio per dedicare
il proprio ingegno a uno dei problemi più difficili con cui la scienza
abbia mai dovuto confrontarsi. E, manco a dirlo, lo ha risolto. Senza
perdere tempo negli oscuri meandri delle complicate analisi utilizzate
dagli esperti del campo, in una limpida serata d’estate lo scrittore
americano ha avuto l’intuizione giusta che gli ha permesso di afferrare
«in un sol colpo» la chiave del mistero. Un mistero, a ben guardare,
assai poco di misterioso, visto che per Tom Wolfe l’origine del
linguaggio nasconde un’ovvietà «così totale da far stentare a credere
che nessun sapientone patentato l’avesse mai fatta notare prima». La
comunità allargata dei paleoantropologi, scienziati cognitivi, studiosi
della teoria dell’evoluzione e filosofi del linguaggio può finalmente
tirare i remi in barca e dedicare il proprio tempo ad attività più
proficue.
Prima di svelare la geniale intuizione che ha portato
Wolfe alla soluzione del problema, c’è da premettere che non si può
apprezzare cosa gli ha fatto risolvere l’arcano senza capire quel che ha
impedito ai «sapientoni patentati» di farlo prima di lui. La risposta è
semplice: è una questione di stile più che di intelletto. Per
sbrogliare la matassa dell’origine del linguaggio ci vogliono le persone
del tipo giusto: Tom Wolfe è maestro nel distinguere gli individui che
vale la pena frequentare da quelli da cui è bene tenersi alla larga.
Prendete un «acchiappamosche» come Alfred Wallace sfinito dalla malaria
in un’isola sperduta dell’arcipelago malese: in pochi giorni butta giù
un abbozzo della teoria dell’evoluzione che riassume alla perfezione la
teoria a cui Darwin pensava da anni senza trovare la forza (e il
coraggio) di scrivere una sola riga. Tra un individuo «confinato in un
madido lettuccio sotto un riparo di fortuna nell’arcipelago malese»
(Wallace) e uno «seduto a una massiccia scrivania in noce dentro una
residenza signorile nelle campagne di Londra» (Darwin) non c’è partita:
indipendentemente da ciò che abbia scritto o fatto, Wallace è il tipo di
individuo che è bene frequentare assiduamente.
Così come è da
frequentare con assiduità Daniel Everett, l’acchiappamosche dei nostri
giorni, famoso per aver studiato la lingua dei Pirahã, una lingua che
pone non pochi problemi alla «grammatica universale» di Noam Chomsky, il
linguista del MIT che è il vero bersaglio polemico del libro. Anche in
questo caso, più che gli argomenti teorici, conta lo stile di vita.
Everett in effetti – un rude amante degli spazi aperti facilmente
scambiabile per un operaio delle piattaforme petrolifere del West
Virginia – è tutto ciò che Chomsky non potrà mai essere: «un
acchiappamosche vecchia maniera, finito inspiegabilmente fra i moderni
linguisti chiusi nello studio con la loro aria condizionata, il pallore
bluastro da schermo di computer e le camicie aperte pseudo-virili».
È
seguendo Everett che Tom Wolfe arriva alla sua geniale intuizione:
l’idea che l’essere umano sia qualitativamente diverso da tutti gli
altri animali perché è l’unico animale in grado di parlare. A dispetto
di quanto pensi Tom Wolfe della propria intuizione, l’idea della
differenza qualitativa tra umani e altri animali è largamente prevalente
tra gli studiosi (Chomsky in prima linea). Le cose non vanno meglio con
la questione dell’origine del linguaggio: la soluzione di Wolfe (quella
a cui i «sapientoni patentati» non sono mai arrivati) è che il
linguaggio non è il prodotto dell’evoluzione perché è, invece,
«un’invenzione» degli umani. Senza dubbio i sapientoni di professione a
volte riescono a complicare i problemi al punto da renderli
irrisolvibili.
Detto questo, la tesi del linguaggio come un
artefatto «creato» dagli umani è di una semplicità disarmante: un modo
per dissolvere il problema facendo finta di risolverlo. Sulla falsa riga
di quanto proposto da Tom Wolfe per il linguaggio, infatti, si potrebbe
sostenere che gli umani hanno inventato la morale, l’estetica, la
religione e così via. In che senso dire che un certo fenomeno è stato
creato dagli umani ci aiuta a capire come quel fenomeno ha avuto
origine? Se ciò che Tom Wolfe ha afferrato in un sol colpo in una
limpida serata estiva è l’idea che gli umani hanno inventato il
linguaggio, la comunità allargata degli scienziati dovrà aspettare
ancora a lungo prima di concedersi qualche giorno di riposo. Le parole
che Chomsky utilizza di solito per mettere qualcuno al proprio posto ci
sembrano calzare alla perfezione per lo scrittore americano: «ci
risparmi, gentilmente, la sua “originalità”».
Perché pubblicare un
libro che affronta il tema delle origini del linguaggio ricalcando uno
degli stereotipi classici (l’unicità dell’essere umano dovuta al
linguaggio) come se fosse una scoperta a cui nessuno ha mai pensato
prima? A chi giova tradurre in italiano un libro che non è un buon libro
di scienza è neppure un buon libro di divulgazione scientifica? La
risposta a queste domande è semplice e sconfortante allo stesso tempo:
perché si tratta di un libro di cui si parla e si parlerà a prescindere
dai contenuti di cui parla il libro.
In un paese in cui il numero
degli atei consacrati è di gran lunga maggiore di quello dei preti in
servizio permanente basta poco ad accendere la miccia: è sufficiente un
accenno negativo alla teoria dell’evoluzione o un cavillo con cui
prendere Darwin in castagna per innescare un dibattito senza fine. E
questo è ciò che sta puntualmente accadendo. In preda all’eccitazione
che solitamente assale alcuni giornalisti quando si parla male di
Darwin, molte testate non hanno resistito al riflesso condizionato di
celebrare il libro di Wolfe cogliendo l’occasione per esaltare la morte
della teoria dell’evoluzione e la fine miserevole di Chomsky.
In
una situazione simile, pensare alle case editrici come a uno dei luoghi
cardine della promozione culturale è una pia illusione. Guardando la
foto di Tom Wolfe che, azzimato di tutto punto, troneggia nella quarta
di copertina è forte la sensazione che distinguere tra acchiappamosche e
gentlemen, esercizio nel quale si adopera lo scrittore americano, sia
una prassi sensata; ma a ben guardare la foto, si ha l’impressione che,
suo malgrado, Tom Wolfe sia finito dalla parte sbagliata della
barricata: dove stanno le persone di cui non è bene fidarsi e dalle
quali è meglio tenersi alla larga.