il manifesto 9.12.16
Italia diseguale, la cecità delle classi dirigenti
Analisi
dei dati Istat. Il 28,7% delle persone è in stato di povertà o
esclusione sociale, in aumento rispetto al 2014, ma chi ci governa
continua a proporre irresponsabilmente le stesse ricette che non
sradicano i fattori strutturali dell’impoverimento
di Riccardo Petrella
Le
notizie sulla crescita delle ineguaglianze e degi impoveriti nel mondo
sono diventate un ritornello cerimoniale. In Italia la raffica dei dati
sulla devastazione sociale in corso è stata molto nutrita in questi
ultimi giorni di «bilanci annuali». Mi riferisco al rapporto o
dell’Istat («Condizioni di vita e reddito 2015») e al rapporto 2016 di
Save the Children «Sconfiggere la povertà educativa. Fino all’ultimo
bambino», diffusi entrambi all’inizio di questa settimana.
Il
28,7% delle le persone residenti in Italia è in stato di povertà o
esclusione sociale, in aumento rispetto al 2014. Mica poco per il
settimo paese più ricco del pianeta.
La quota delle persone
impoverite sale al 48,3% (da 39,4%) se si tratta di coppie con tre o più
figli e raggiunge il 51,2% (da 42,8%) nelle famiglie con tre o più
minori; i livelli d’impoverimento sono superiori alla media nazionale in
tutte le regioni del Mezzogiorno, con valori più elevati in Sicilia
(55,4%), Puglia (47,8%) e Campania (46,1%). Quattro individui su dieci
sono impoveriti in Sicilia, tre su dieci in Campania, Calabria, Puglia e
Basilicata. Se nei paesi dell’Unione europea (più Islanda e Norvegia)
oltre 26 milioni di bambini sono in stato d’impoverimento, in Italia, la
percentuale tocca il 32% (contro il 28% in Ue). Alla radice
dell’impoverimento e dell’esclusione sociale,ricorda Save the Children
per l’ennesima volta, c’è la disuguaglianza. «Il 10% delle famiglie più
ricche in Europa attualmente guadagna il 31% del reddito totale e
possiede più del 50% della ricchezza totale, e il divario tra ricchi e
poveri sta aumentando».
Si tratta di processi strutturali, non
contingenti. Ebbene quali e dove sono le classi dirigenti europee che
hanno dato e danno realmente la priorità alla strategia dello
sradicamento dei fattori strutturali dell’impoverimento e
dell’esclusione sociale?
Per cecità legata ai loro dogmatismi
ideologici e per chiaro obiettivo di difesa dei loro interessi di
classe, i dirigenti del mondo del business e della finanza, della
tecnocrazia e del mondo della politica continuano con pervicacia ad
applicare scelte e ad adottare misure il cui effetto principale,
risultato indiscusso negli ultimi quaranta anni, è stato quello di
alimentare e rafforzare la crescita delle ineguaglianza di reddito e
dell’esclusione.
La loro formula trita e ritrita non è cambiata:
meno tasse sui ceti medio-bassi e incentivi fiscali per i ceti
medio-alti, più investimenti in infrastrutture (informatiche,
energetiche, trasporti…), più libertà alle imprese (riduzione dei
vincoli, autocertificazione, liberalizzazione del commercio e degli
investimenti…), piccole porzioni di «redistribuzione» di reddito, ad
hoc, di tipo assistenziale, sovente di natura elettoralistica. Il tutto
allo scopo prioritario di favorire la crescita economica, la
competitività internazionale e l’uso efficace ed efficiente delle
risorse del pianeta.
In termini di rendimento finanziario, la
riduzione delle tasse, anche quando ha indotto un modesto aumento dei
consumi stimolando così la crescita della produzione e degli
investimenti, si è tradotta nella capacità dei detentori di capitale di
appropriarsi della parte più grande e consistente della ricchezza
prodotta, contribuendo cosi all’aumento della forbice tra redditi da
lavoro e redditi da capitale.
Allo stesso risultato si è giunti
con le misure in favore degli investimenti nelle infrastrutture
produttive e commerciali in supporto delle attività delle imprese
private e privatizzabili, anziché nelle infrastrutture per il benessere
socioeconomico di tutti, quali scuole, ospedali, asili infantil e
servizi alle persone d’interesse generale pubblico. La ricchezza da essi
creata è andata utlerioremente a remunerare il capitale dei gruppi
sociali a reddito medioalto. Inoltre, le politiche di austerità, poste
sotto il controllo di banche centrali come la Bce (politicamente
indipendenti dai poteri pubblici eletti) e valutate da agenzie
finanziarie private mondiali (le agenzie di rating), hanno
considerevolmente avvantaggiato le classi più ricche. Ciò è stato
inevitabile in un contesto in cui, da un lato, l’imposizione
dell’equilibrio di bilancio ha fatto si che spese pubbliche e sociali
siano contabilizzate e quindi «da ridurre» (quelle militari ne sono
escluse) e, dall’altro lato, la legalizzazione dell’evasione fiscale
(paradisi fiscali, segreto bancario…) e l’esaltazione della finanza
speculativa (si pensi alla finanza algoritmica, al millesimo di secondo)
hanno condotto a un massiccio trasferimento di reddito nelle mani dei
già ricchi. In confronto, le bricioline redistributive (80, 100 euro una
tantum o le carte alimentari…) in favore dei più «bisognosi»
costituiscono una forma vergognosa di assistenza caritatevole.
Non
è un caso che il nuovo segretario al tesoro degli Usa, Steven Mnuchin,
scelto da Trump, ha reso noto i tre punti chiavi del suo programma per
ridare forza e fiducia all’economia: meno tasse, più investimenti in
infrastrutture, più libertà alla finanza. E non a caso, gli Usa
continueranno a figurare al primo posto della classifica nell’indice
d’ineguaglianza sociale fra i paesi più ricchi al mondo. La verità è che
le disuguaglianze non saranno ridotte dalla crescita del Pil perché il
Pil che cresce secondo i canoni dell’economia dominante è, invece, il
fattore strutturale chiave della creazione delle disuguaglianze.
Così
è del tutto irresponsabile da parte di Vincenzo Boccia, presidente
della Confindustria, affermare che per gli imprenditori gli obiettivi
della crescita e della competitività restano centrali (Corriere della
Sera del 6 dicembre). Altro che riforma dell’Italia. Business as usual.
Che cecità.