il manifesto 8.12.16
Pd, lo sconfitto detta la linea
Nessun
dibattito in direzione, solo applausi per Renzi e urla contro l'unico
(Tocci) che si alza a chiedere di discutere la posizione con la quale
andare da Mattarella. Ma il segretario aveva già deciso, e comunicata le
sue mosse agli "amici della enews". E a Giorgio Napolitano
di Andrea Fabozzi
«Adesso
basta con le direzioni in cui Renzi parla da solo e agli interventi
vengono lasciati appena pochi minuti», aveva detto più di un dirigente
del Pd, dandosi un po’ di coraggio dopo la sconfitta del segretario al
referendum. E così ieri ha parlato solo Renzi, e poi basta. Riunione
finita, malgrado il tentativo di Walter Tocci – uno che ha votato No e
per questo è stato accolto dalle grida «vergognati» – di far presente
che la linea del partito con la quale andare al Quirinale andava almeno
discussa. Non c’è tempo, Renzi deve salire al Quirinale . «Discuteremo
quando la crisi si sarà risolta», ha detto il presidente del partito
Orfini. Inutile far notare che la direzione è cominciata tre ore più
tardi della prima convocazione, il tempo ci sarebbe stato. Invece
niente, nessun intervento, nessuna discussione, E poi Renzi la linea
l’aveva già comunicata, prima ancora della direzione, agli «amici della
enews» dal suo sito personale. «Governo di responsabilità nazionale
sostenuto anche dagli altri partiti», oppure «al voto subito dopo la
sentenza della Consulta».
Questa è la posizione del Pd cioè di
Renzi, le due cose ancora coincidono. Nella sconfitta il presidente del
Consiglio dimissionario non è molto cambiato, ha rimandato la resa dei
conti interna ma ha già annunciato che sarà «dura». E ha dato un
anticipo: «So che tra noi qualcuno ha festeggiato in modo non
elegantissimo, lo stile è come il coraggio non ce lo si può dare». Un
attacco ai rappresentanti della minoranza – già fischiati all’ingresso
della direzione da truppe renziane – accusati di tradimento e anche di
vigliaccheria. Nell’attesa dell’analisi del voto (ma quella delle
sconfitte non c’è mai stata), il segretario, saldo nel ruolo, comincia
anche a dare le carte, e può ringraziare il tempestivo assist di
Pisapia: «Dobbiamo pensare cosa significa un partito a vocazione
maggioritaria nel nuovo quadro».
Significa alleanze, ovviamente, a
sinistra con la formazione che l’ex sindaco di Milano ha immaginato
ieri, mentre a destra c’è sempre Alfano. Ci sarebbe anche la minoranza
Pd, ma ancora per poco nei piani renziani. Non per niente in nessuno dei
suoi scenari viene nominato il congresso, che pure allo stato potrebbe
vincere facile. Il segretario prevede di risolvere la pratica
cancellando ogni traccia bersaniana dalle liste elettorali.
Il
piano A, quello del governo istituzionale – in ipotesi, Grasso – è
quello che sembra piacere meno a Renzi, visto che già vede il rischio di
«pagare il prezzo della solitudine della responsabilità»; un
coinvolgimento pieno di Forza Italia è incerto mentre è certamente
escluso quello di leghisti e grillini. Ma anche il piano B, elezioni
subito, è diverso da quello presentato: tanto subito non potrà essere.
Mettendo in fila l’udienza della Corte costituzionale sull’Italicum (24
gennaio), il tempo anche minimo per la scrittura delle motivazioni, il
tempo necessario al parlamento per adeguare i sistemi elettorali residui
alle decisioni della Corte e i 45 giorni almeno che devono trascorrere
tra lo scioglimento delle camere e le nuove elezioni, si arriva al più
presto a fine aprile. Quasi a ridosso del vertice G7 di Taormina al
quale Renzi tiene molto. Ma non è solo per questo che il presidente del
Consiglio uscente immagina di poter essere ancora lui a guidare
l’esecutivo «elettorale», pensa cioè di poter riavere l’incarico.
In
fondo ha appena incassato la fiducia del senato, il ramo più
problematico del parlamento, e con un margine persino maggiore rispetto
all’esordio, nel 2014. Per evitare imbarazzi (accadde a Bersani), Renzi
non farà parte della delegazione per le consultazioni, basteranno i
fidati Guerini, Rosato, Zanda e Orfini. La baldanza (e il consueto
ritardo di 45 minuti) con la quale si è presentato alla direzione che
avrebbe dovuto «processarlo» per la sconfitta, è indicativa. Come i
dettagli: poco prima di recarsi al Quirinale per (in teoria) ricevere
istruzioni dal presidente della Repubblica, ci ha tenuto a far sapere di
aver «parlato al telefono con Giorgio Napolitano» per «ringraziarlo».
Quando l’ex capo dello stato è, con lui, il principale responsabile del
disastro. A cominciare dal contrasto tra sistema elettorale e sistema
istituzionale che impedisce di votare subito.