Corriere 8.12.16
Renzi e il destino del pd ancora da scrivere
di Antonio Macaluso
Tenendo
fede a quello che ha sempre detto — quando si sbaglia si usa sempre
l’io, il noi va tenuto da parte per quando si vince — Matteo Renzi dovrà
ora riflettere sulla sconfitta e su quanto possa aver influito, al di
là dei contenuti della Grande riforma, la gestione del governo e del
partito. Nel suo libro Oltre la rottamazione (maggio 2013) — quando era
già leader del Pd e nove mesi prima di insediarsi a Palazzo Chigi al
posto di Enrico Letta — Renzi scriveva: «Se ho indossato con convinzione
i panni del rottamatore non è per il furore iconoclasta del nuovismo.
Quando lo dico non mi crede nessuno, ma sono una persona che adora le
tradizioni, che si è laureata in Storia del diritto e che crede alla
bellezza del patto tra generazioni. Credo nella bellezza e nel valore
costitutivo della memoria e mi piace da impazzire quel pensiero di James
Matthew Barrie, il padre di Peter Pan, che dice “Dio ci ha donato la
memoria, così possiamo avere le rose anche a dicembre”».
Il punto è
che quelle rose, anche a dicembre, possono essere piene di spine. È
ancora Renzi a farlo presente in un suo libro precedente, Fuori !, 2011,
quando racconta della telefonata che gli fece Massimo D’Alema per
congratularsi con lui per la vittoria alle primarie per correre come
sindaco di Firenze: «Complimenti. Leggo — gli disse D’Alema — che
qualcuno ti definisce il nuovo astro nascente della sinistra. Auguri, ma
ti suggerirei prudenza e cautela. L’ultimo astro nascente della
sinistra è stato appena maciullato. Si chiamava Renato Soru». Parole che
in quel momento dovevano suonare alle orecchie di Renzi come
l’avvertimento rabbioso di un rottamato in pectore se, poche pagine più
avanti, scrive: «I nostri sembrano in bambola. Li senti parlare in slang
politichese e ti verrebbe da chiamare un dottore per chiedere: “scusi,
ma a questi l’anestesia quando finisce? Quando si svegliano davvero”»?
Erano
gli anni delle bordate contro «i soliti noti, i tromboni e i trombati».
La parola d’ordine, innocua nella formulazione ma cruenta nella
sostanza, era ridare fiato al Pd e slancio all’Italia. Diceva Renzi,
rivolgendosi alle nuove leve del partito e, in generale, del Paese, che
era il momento di decidere «se vogliamo provare a domare le stelle,
puntando in alto. O se ci accontentiamo di vivere impigriti, facendo a
botte con il nulla». Una chiamata alle armi di trentenni e quarantenni,
che esortava a non avere paura: «Saremo accusati di arroganza e
arrivismo. Ma meglio essere accusati di arroganza oggi che essere
processati per diserzione domani». E qui, quasi sei anni dopo, ci
ritroviamo: ci ha provato nel modo giusto? Ha fatto abbastanza? Ci sono
stati più arroganza e arrivismo che cura del dialogo e cura dei
contenuti? O è stato il «vecchio mondo» a ricompattarsi prima d’essere
spazzato via, di farsi rottamare? Quali e quante stelle Renzi ha domato?
In
molti alzeranno — chi pubblicamente, chi meno — calici per brindare al
«bischero» azzoppato, sconfitto. Ma non tutti saranno — chi
pubblicamente, chi meno — in grado di affermare con ragionevole certezza
che un governo diverso e un Pd anche solo in parte derenzizzato valgano
davvero un brindisi. Chi, in buona fede, può far finta di non sapere su
quale pericoloso crinale viva il nostro Paese, sempre nel mirino di una
speculazione a caccia di buoni affari? E, anche limitandoci a
immaginare un futuro per il Pd, la cui attitudine all’autolesionismo è
stata sperimentata da tutti i suoi leader, è di tutta evidenza la
necessità di ritrovarsi. Nel suo libro Stil Novo del 2012, Renzi
sostiene che Dante Alighieri, pur senza esserne cosciente, era di
sinistra. Era un uomo coraggioso, «stava nella mischia a testa alta.
Aveva l’ardire di sfidare i potenti. In un mondo di mezze calzette, era
uno tosto che non si tirava indietro quando c’era da parlare chiaro.
Persino con il Papa».
Difficile (o forse no, a seconda di quanto
si voglia essere maliziosi) dire se quattro anni fa Renzi si sentisse il
Dante 2.0 per la sinistra italiana ma è certo che, al netto del
problema della leadership, il Pd i suoi problemi non li ha ancora
risolti. Perché, Renzi o non Renzi, la politica è fatta di idee, di
coerenza e di coraggio. E, con lui o senza di lui, il Pd dovrà decidere —
cosa che dalla sua nascita non ha mai fatto — cosa vuole essere
davvero.