giovedì 8 dicembre 2016

Corriere 8.12.16
Il partito sfugge al segretario
di Aldo Cazzullo

«So’ quattro giorni che se dimette…». La voce dal marcato accento centromeridionale toglie ogni solennità all’addio di Renzi. Il Pd lo abbandona: il voto non lo vuole nessuno .
«s o’ quattro giorni che se dimette…». Dalle ultime file la voce dal marcato accento centromeridionale toglie ogni solennità all’addio di Renzi. Il Pd lo abbandona: le elezioni anticipate non le vuole nessuno.
Cade il più longevo governo di centrosinistra della Seconda Repubblica, ma i deputati e senatori qui convenuti hanno una sola preoccupazione: salvare la legislatura, quindi le poltrone, e il vitalizio. Il 62% sono di prima nomina; deve passare almeno l’estate; prima viene la legge elettorale, poi il congresso, quindi le primarie; resistere resistere resistere. Una senatrice della corrente dei «turchi», quella del ministro Orlando, dà la linea: «Matteuccio nostro ci ha fatto perdere prima le amministrative, poi il referendum; stavolta a sbattere ci va da solo».
Ormai parlano di lui con sufficienza. «Mo’ vediamo che cce dice» si fa largo tra la folla il mitico Stumpo, l’aria del latifondista che si riprende le terre. «Calmi, calmi…è un assedio!» grida delicatamente il biondo Cuperlo. C’è qualche militante venuto a sostenere Renzi; non ci sono le proteste annunciate contro i sostenitori del No. D’Alema è a Bruxelles, Bersani passa dal retro e si apparta con Speranza; tutti i fischi se li prende il povero Boccia in De Girolamo, lettiano; Franceschini si siede al suo fianco per confortarlo. Ormai si sente il padrone del partito, e un po’ lo è. Il rapporto con Mattarella è antico. Rosato e Zanda, i due capigruppo che saliranno al Quirinale con Guerini e Orfini (Renzi torna a casa a festeggiare gli 86 anni della nonna più giovane e giocare alla playstation con i figli) sono uomini suoi. Quando scoppia la ressa — 400 persone per 100 sedie in un caldo africano —, è Franceschini a far defluire: «Quand’ero segretario abbiamo fatto i lavori di ristrutturazione, ma più di tanti non ci stanno; qualcuno esca se no crolla tutto». A Renzi ha assicurato che lavora per lui: non ha ambizioni personali, ma la legislatura è meglio portarla avanti; Matteo ha tempo per preparare la rivincita; nel frattempo a Palazzo Chigi potrebbe andare un altro uomo del Pd, magari un ferrarese con la barba autore di romanzi tra cui gli immortali Nelle vene quell’acqua d’argento e L’improvvisa follia di Ignazio Rando . I «turchi» sono già d’accordo con Franceschini. L’ultimo a cedere è stato Orfini, che ora chiama l’applauso all’arrivo di Renzi.
Il segretario simula serenità — «non si fa politica con il broncio, passerò la campanella al mio successore con il sorriso più largo e più grato» —, ma ai sostenitori del No caverebbe volentieri gli occhi tipo imperatore bizantino della decadenza per poi succhiarli con un po’ di limone come ostriche: «Alcuni tra noi hanno festeggiato in modo prorompente e non elegantissimo la mia caduta; ma lo stile è come il coraggio di don Abbondio», chi non ce l’ha non se lo può dare; «non giudico e non biasimo, alzo anch’io il calice alla fortuna del Paese più bello del mondo». Stumpo, nella cui casa si sono svolti i festeggiamenti, sorride come Franti.
Renzi dice in sostanza che il «governo di responsabilità nazionale» si può fare solo se ci stanno tutti, o almeno Berlusconi; altrimenti si va a votare. E siccome nessun partito avrà la maggioranza in entrambe le Camere, comincerà una nuova stagione di larghe intese contro Grillo; e non è affatto detto che «l’animale ferito» Renzi, come lo definisce un bersaniano, sia l’uomo adatto per guidarle.
Matteo Richetti e Simona Bonafé, renziani antemarcia che nei giorni difficili sono tornati al suo fianco, gli hanno consigliato di dar retta a «San Mattarella», come lo chiamano senza ironia: votare subito converrebbe; ma non si può. Fassino ha tentato di placarlo suggerendogli un Renzi bis, almeno sino al 24 gennaio: se la sentenza della Consulta sarà autoapplicativa, si potrà andare subito alle urne; altrimenti ci si prende un altro mese per fare la legge elettorale. In tal caso i ministri potrebbero restare, tranne quelli che si sono più esposti: la Boschi sul referendum, la Madia sulla riforma bocciata dalla Corte, la Giannini non molto amata dagli insegnanti. Ma il segretario vorrebbe segnare la massima discontinuità: fuori tutti, tranne Padoan.
«Si parla, si vota, si decide qui dentro, in direzione» quasi grida Renzi, che sa di non poter più contare sui gruppi parlamentari. Il dibattito è rinviato ma Walter Tocci del No vuole parlare lo stesso, Paola Concia gli urla di smettere: «Anche io volevo intervenire, sono venuta apposta da Francoforte, ma Matteo ha detto che non è il momento!». Il parlamentare europeo Daniele Viotti, anche lui gay dichiarato, si schiera in difesa di Tocci, la senatrice ex civatiana Lucrezia Ricchiuti la appoggia, la Concia renzianissima si avventa; per tenerla ferma deve muoversi la Boschi, aiutata dal galante Pino Catizone, per vent’anni sindaco di Nichelino. Renzi è già al Quirinale: dimissioni, ma congelate. Quinto giorno.