il manifesto 6.12-16
Sinistra, il nuovo messaggio dalle periferie
di Marco Valbruzzi e Domenico Fruncillo
In
 questa lunga campagna referendaria c’è stato qualcuno che, anche su 
questo giornale, si è domandato dove fossero finite le ragioni di 
sinistra, riguardanti essenzialmente il rapporto tra eguaglianza e 
democrazia, per dire no alla riforma costituzionale. Le risposte, 
soprattutto da parte della classe politica, si sono fatte attendere, ma 
sono arrivate forti e chiare quelle degli elettori, un po’ da tutte le 
parti in Italia. Anche in questa tornata elettorale, è tornato 
prepotentemente a farsi sentire il tema delle periferie sociali, di quei
 ceti disagiati a cui nessuno riesce o vuole parlare. Quello che emerge 
chiaramente dall’analisi del voto in città come Roma, Bologna o Napoli è
 che gli elettori, soprattutto quelli più svantaggiati, deboli o 
“marginalizzati”, hanno trasformato un referendum costituzionale (sulla 
modifica della Costituzione) in un referendum sociale, sulla propria 
condizione di vita e sul proprio status sociale. Uno strumento tecnico è
 diventato una clava politica utilizzata dai ceti più deboli per mandare
 un segnale di insoddisfazione e malcontento nei confronti della classe 
dirigente, in particolar modo quella che oggi siede (o sedeva) al 
governo, e di una democrazia rappresentativa che non riesce più a 
rappresentare le esigenze, le preferenze, anche le paure, di una parte 
della società italiana che è “uscita” impoverita e impaurita da una 
crisi economica e sociale interminabile.
Queste tendenze 
elettorali sono emerse chiaramente dall’analisi territoriale del voto 
referendario a Roma, dove il “sì” si è ormai ristretto e rinchiuso nei 
quartieri della sinistra pariolina e salottiera. Un’immagine che 
ritroviamo anche a Venezia e, addirittura amplificata, a Torino, dove i 
sostenitori della riforma hanno prevalso soltanto nel centro storico. Ma
 i dati più netti e significativi emergono da due città diverse per 
storia e tradizione politica, ma che servono ad illuminare – o forse a 
fare esplodere – le contraddizioni di un centrosinistra incapace di 
raccogliere i malumori dei ceti sociali più deboli e svantaggiati. A 
Napoli, il voto contrario alla riforma renzian-boschiana si ferma al 
58,4% nei quartieri agiati del centro, mentre si impenna al 72,9% nelle 
zone in cui sono meno numerosi i laureati, i tassi di occupazione sono 
più bassi, gli indici di affollamento abitativo più elevati e le 
professioni intellettuali meno diffuse. In queste aree, il giudizio 
sull’operato del governo Renzi e sulla sua riforma costituzionale è 
stato trainato da un sentimento diffuso di disagio sociale che ha 
trovato una valvola di sfogo nello strumento, certamente imperfetto, del
 referendum costituzionale.
La seconda città dove emergono 
nitidamente le difficoltà del centrosinistra nei suoi rapporti con la 
componente più debole della società è Bologna, un tempo città-simbolo, 
se non il laboratorio, della sinistra italiana. Già in occasione delle 
elezioni amministrative del giugno scorso avevamo assistito all’inizio 
di un divorzio tra le periferie sociali e quello che una volta, sotto le
 Due Torri, veniva chiamato il “partitone”. Con i risultati del 
referendum di domenica, la crisi tra il centrosinistra e le nuove aree 
di marginalità sociale si sono ulteriormente rafforzate. I sostenitori 
della riforma prevalgono nelle sezioni elettorali e nei quartieri dove 
il reddito medio dei cittadini è maggiore, mentre il “no” vince proprio 
nelle zone relativamente più povere ed economicamente marginali. È anche
 tra i giovani o, meglio, nelle aree della città dov’è più alta la 
presenza giovanile, che il voto contrario alla riforma si rafforza. 
Insomma, laddove c’è incertezza, precarietà e disagio sociale, la 
presenza o anche solo le soluzioni proposte dallo schieramento di 
centrosinistra non fanno più breccia. Anzi, ormai assistiamo all’effetto
 opposto: una progressiva erosione del legame che un tempo univa i 
partiti di sinistra con i ceti più deboli e meno garantiti della 
società.
Se c’è (eccome, se c’è) una crisi della sinistra, 
peraltro non solo italiana, è proprio da queste dinamiche elettorali che
 essa può essere interpretata, capita e, nei limiti del possibile, anche
 risolta. Forse ci si era illusi che bastasse cambiare la seconda parte,
 organizzativa, della Costituzione per vederne pienamente attuata e 
rispettata la prima, quella programmatica. Un’illusione che è costata 
cara al presidente del Consiglio e di cui, però, l’intera sinistra 
italiana dovrebbe trarre qualche utile lezione. Prima che sia troppo 
tardi.
 
