il manifesto 5.12.16
Una valanga di No seppellisce il governo Renzi: finisce qui
Il
popolo sovrano. I primi dati parlano del 60 per cento. Oggi va al
Quirinale Il premier: «Non ce l’abbiamo fatta, la responsabilità è mia».
Il (quasi ex) premier ora alle prese con il nodo del partito. Martedì
convocata la direzione
di Daniela Preziosi
«Ho
perso, mi prendo tutta la responsabilità», «l’esperienza del mio governo
finisce qui, perché non possono restare tutti incollati alle loro
abitudini prima che alle loro poltrone. Non ce l’ho fatta e la poltrona
che salta è la mia». Poco dopo la mezzanotte il presidente del consiglio
si presenta a Palazzo Chigi alle telecamere e rassegna in diretta tv le
sue dimissioni da premier. Oggi pomeriggio salirà al Colle per farlo
davvero, rispettando la Costituzione che gli elettori gli hanno impedito
di modificare male. Renzi si commuove quando ringrazia la moglie Agnese
e i figli, quando manda «un abbraccio forte agli amici del Sì».
Finisce
qui, dice lui, la storia del governo Renzi. Seppellito da una valanga
di No. Mentre il manifesto chiude questa edizione poco più della metà
delle schede scrutinate dicono No al 59,5 per cento e Sì al 40,5.
È
una sconfitta netta, annunciata da ore. Quando manca più di un’ora alla
chiusura dei seggi, gli exit poll in teoria ancora sotto embargo. Ma la
notizia è clamorosa, non si trattiene, straripa sulla rete, nei canali
tv che stanno per dare inizio alle loro maratone. La forbice fra No è Sì
è impressionante. Quando, a urne chiuse comincia lo spoglio reale delle
schede, è pure meglio. Peggio per il governo e la sua maggioranza.
La
sconfitta è irreparabile, definitiva. Forse non inaspettata, ma
difficile da governare date le dimensioni. Una sportellata senza
precedenti. Forse, in scala, il risultato delle scorse amministrative
era stata un aperitivo, un assaggio, una premonizione. Che Renzi e i
suoi però non hanno voluto forse saputo vedere.
È una valanga
quella che seppellisce la proposta di riforma Renzi-Boschi, e con la
riforma dà uno scossone al governo, alla sua maggioranza e al Partito
democratico. Al Nazareno tira un’ariaccia già alle otto di sera. I
sondaggi riservati circolano fra le scrivanie e non lasciano margini di
dubbio da giorni. Tetragoni alla realtà che bussa alle porte, quelli del
comitato Bastaunsì non hanno smesso la propaganda. Uno degli ultimi sms
distribuiti a pioggia agli elenchi dei votanti delle primarie: «Siamo
in fortissimo recupero. Siamo sul filo dei voti. Gli sforzi di queste
ore possono essere decisivi. Avanti tutta, basta un Sì». Alla mezzanotte
di domenica questi messaggi sembrano una beffa grottesca, quella di un
partito (e un governo) che ha voluto testardamente andarsi a schiantare a
tutta velocità contro il muro della propria autosufficienza.
È
Lorenzo Guerini, alle 23, a metterci la faccia. Il vicesegretario è
terreo. Laconico. «Renzi parlerà in conferenza stampa fra circa un’ora.
Noi oltre a valutare i risultati che arriveranno, convocheremo gli
organi del partito nel giro di pochi giorni e già martedì convocheremo
la direzione nazionale per l’analisi dell’esito referendario». Al
partito sono arrivati Deborah Serracchiani, i capigruppo Rosato e Zanda,
il ministro Dario Franceschini. Al Nazareno circola la voce che se le
dimensioni della sconfitta restano queste delle prime ore della notte
martedì potrebbero arrivare le dimissioni di Renzi, stavolta da
segretario del Pd. Del resto le aveva promesse all’inizio della sua
corsa
referendarie, cambiando poi parecchie volte opinione. Ma è
difficile: «È tempo di rimettersi in cammino» dice alla fine del suo
discorso di Palazzo Chigi. Mentre Guerini parla, Renzi da tempo ha dato
appuntamento ai giornalisti, segnale inequivocabile di sconfitta. Gli
elettori e le elettrici hanno dimostrato di non apprezzare nulla di lui:
la riforma, la boria, l’insulto dell’amico e del nemico, la narrazione
tossica delle proprie leggi, i mille giorni di governo, mille giorni di
errori da meditare.
Dall’altra parte «l’accozzaglia» gioisce,
ciascuno con il suo stile e la sua misura. Il primo a scattare è Matteo
Salvini. Il primo a chiedere le dimissioni di Renzi: «Se i dati verranno
confermati, gli italiani Renzi lo hanno rottamato». Dimissioni vengono
chieste a gran voce da tutta la destra: Giorgia Meloni, Renato Brunetta.
Ma il prossimo governo dovrà fare una legge elettorale nuova, dopo che
la Corte Costituzionale si sarà pronunciata sull’Italicum. A meno che
non la bocci per intero.
Da sinistra i toni sono tutt’altri.
L’«accozzaglia» non è un fronte politico comune, a differenza di quello
che Renzi e i suoi hanno ripetuto fino allo sfinimento in campagna
referendaria, a reti unificati. Senza mai convincere elettori ed
elettrici. Arturo Scotto, di Sinistra italiana, chiede un intervento del
Quirinale. «Renzi lascia un campo di macerie, ora ci affidiamo alla
saggezza del presidente Mattarella». La sinistra bersaniana, riunita in
una casa privata, frena i commenti. Non è il momento di assecondare
pulsioni autodistruttive, il partito è già nel caos. «Eravamo nel
giusto», dice solo Roberto Speranza.