il manifesto 3.12.16
La rimembranza delle occasioni perdute
Saggi.
«Malinconia di sinistra» del filosofo e storico Enzo Traverso per
Feltrinelli. l 1848, la Comune di Parigi, la Rivoluzione russa del 1905.
Tre eventi visti non come fine di una prospettiva di liberazione, ma
tappe di un processo in divenire. È con il crollo del Muro che cala il
sipario su un secolo iniziato con l’auspicio della rivoluzione sociale.
Con la fine del socialismo reale il centro della scena è occupato da
opzioni politiche di sinistra nostalgiche del passato
di Marco Bascetta
La
«fine di un’epoca», così buona parte della stampa mondiale ha
commentato la morte di Fidel Castro, l’«ultimo comunista». Che cosa
significa la fine di un’epoca? Intanto che ogni linea di continuità è
recisa, ogni nesso tra passato e presente negato. Le categorie, le
motivazioni e perfino il senso delle parole hanno cambiato di segno.
Forse si tornerà a parlare di socialismo, di comunismo, ma questi non
somiglieranno ai loro avi novecenteschi più di quanto la democrazia
antica non assomigli alla moderna democrazia parlamentare: remota
invenzione di una idea a cui si rende l’omaggio dovuto a una ragione
originaria, ai primi avventati esploratori di una forma politica ancora
irrisolta. E come della democrazia greca si ricorderà esser stata
fondata sull’esclusione e sulla schiavitù, del socialismo si dirà, con
altrettanta ragione, esser stato edificato sulla trascendenza oppressiva
del partito e dello stato.
Ma se da Atene e Sparta ci separa una
enorme distanza temporale, così non è per la Russia dei soviet o per la
rivoluzione cubana. E se è vero che l’implosione delle società
socialiste ha mandato in frantumi la gabbia che imprigionava ogni
soggettività desiderosa di trasformare radicalmente lo stato di cose
esistente, è anche vero che la «nuova ragione del mondo», la dottrina
neoliberista, si è rapidamente appropriata delle energie scaturite da
quella implosione. La fine del socialismo realizzato si è data così
nella forma di un’occasione mancata, di un senso di impotenza posto
sotto il segno della malinconia.
IL COLORE DELLA MALINCONIA è, come
insegnavano gli antichi, il nero: l’«atra bile», l’umore cupo della
tristezza e del disfacimento. Può sorprendere, allora, una storia di
questa affezione, di questa condizione dello spirito, dipinta con
tutt’altro colore: il rosso della rivoluzione sociale, sia pure sbiadito
nel tempo mesto della sconfitta. Malinconia di sinistra. Una tradizione
nascosta, così si intitola un nuovo libro di Enzo Traverso
(Feltrinelli, pp.240, euro 25) pronto ad incrociare, però traendone
qualche insegnamento e qualche speranza proiettata nel futuro, le
tonalità depressive che pervadono il nostro tempo. Più che nella
«sinistra», parola i cui contorni sono sempre più indistinti ed
equivoci, è tra i «rivoluzionari» che hanno marciato sotto la bandiera
dell’eguaglianza che l’autore insegue le orme di questa tradizione. Solo
le rivoluzioni, infatti, o le insorgenze che ne costituiscono, o
immaginano di costituirne le tappe, possono sperimentare nel profondo la
sconfitta, la perdita, il dolore della caduta. La prudenza del
riformismo, con i suoi compromessi e le sue mediazioni, può andare
incontro a battute di arresto, sospensioni, ma non a una disfatta
catastrofica.
SULLA NATURA della malinconia, sulle sue allegorie e
rappresentazioni esiste un imponente corpus interpretativo, di natura
estetica, morale, filosofica, antropologica, psicoanalitica. Traverso,
pur dandone conto, si sofferma essenzialmente su due aspetti: la perdita
e il lutto: la prima destinata a una permanenza sconsolata, il secondo
suscettibile di una elaborazione che ne consente il superamento, nonché
la generazione di nuova energia e motivazione alla lotta. Dunque, in
tutto il corso della sua storia, quella che fu chiamata «rivoluzione
socialista» ha vissuto catastrofiche sconfitte, massacri spaventosi,
lunghi periodi di ibernazione. I punti alti dello scontro si sono quasi
sempre conclusi con tragiche capitolazioni: il 1848, la Comune parigina
del 1870, forse la più celebre e vivida rappresentazione della disfatta,
la rivoluzione russa del 1905, la rivolta spartachista. Eppure quel
sangue versato, quelle cadute rovinose non revocavano il senso e il fine
del processo rivoluzionario, la sua prospettiva storica e le speranze
che aveva suscitato. Anzi, ne costituivano l’alimento.
UN PATRIMONIO
EMOZIONALE e conoscitivo al tempo stesso, un’istanza imprescindibile di
riscatto. In fondo, la battaglia, impari, era stata ingaggiata contro
un formidabile potere di oppressione, il cui sanguinoso trionfo non
poteva che confermarne i tratti inumani e dunque inaccettabili. E
riaccendere, così, le speranze e le passioni rivolte al suo
rovesciamento. Insomma quella tradizione che dall’omaggio reso da Marx
ai caduti della Comune, fino ai massacri rappresentati nelle pellicole
di Eisenstein, risuona ancora nelle strofe di canzoni come Morti di
Reggio Emilia. Ma che, pur confinata nella penombra, vive, appunto, di
una tonalità malinconica, di una commozione luttuosa, di un dolore per
la sconfitta di quella umanità insorgente tanto immersa nella
materialità della vita quanto lontana dalla retorica dell’eroe, che
pervade, invece, le onoranze funebri celebrate dalla destra.
Ma vi è,
però, un altro grado della melanconia, che cresce nel corso della
storia del Novecento per raggiungere il suo culmine nel fatidico 1989.
Questa tonalità emotiva, sempre meno capace di trarre dalla negatività
dell’esperienza nuova energia non è generata da una vittoria sul campo
dell’avversario di classe. A generarla è il suicidio delle rivoluzioni
vittoriose o la loro «corruzione», una patologia endogena che, passo
dopo passo, ne ha corroso le ragioni e le promesse. Che pure sono
esistite ed hanno messo in movimento grandi masse.
LA MORTE DI FIDEL
CASTRO, per tornare a questo evento fortemente simbolico, avviene, a
dispetto di qualsiasi enfasi celebrativa, in una atmosfera di mestizia
in cui si mescolano quelle ragioni e quel morbo degenerativo. Comunque
sarà ricordata o ripensata nel futuro, è ben difficile che l’esperienza
della rivoluzione cubana, possa più rappresentare un «faro» o uno
«sprone», una indicazione per il tempo a venire. La morte del Che e
quella di Fidel rappresentano, in qualche modo, gli estremi opposti
della malinconia rivoluzionaria. Se la prima rappresenta ancora una
bandiera, la seconda completa tardivamente quella cesura, quella
soluzione di continuità, quella fine, che nel 1989 ha avuto la sua data
simbolica e «definitiva». Ma molte sono le «fini» che la avevano
preceduta. Prima tra tutte quella consumatasi a Praga vent’anni prima. E
poi la deriva corrotta e autoritaria che ha segnato la deriva delle
lotte anticoloniali e di «liberazione nazionale». Delle tre rivoluzioni
che alimentarono l’immaginario degli anni Sessanta e Settanta: quella
anticapitalistica in Occidente, quella antiburocratica all’Est e quella
antimperialista al Sud, di nessuna si può dire che sia andata a buon
fine. Eppure hanno cambiato il volto del pianeta e ridisegnato le mappe
del conflitto. Sotto l’oppressione del rapporto di capitale, certamente,
ma anche nell’acuirsi della sua crisi e delle sue contraddizioni.
CHE
FARE, dunque, in questo frangente, tra la pretesa di dannazione eterna
per ogni ragione e passione della rivoluzione sconfitta avanzata dai
vincitori, e quella inclinazione nostalgica, restia a prender commiato
dalla teleologia «progressista» e a cimentarsi con uno scenario
radicalmente trasformato? Contro ogni musealizzazione della memoria, che
la separa per sempre dalla capacità di esercitare una influenza reale
sul presente, Traverso ripropone, sulle orme del filosofo francese
Daniel Bensaid, quella concezione benjaminiana del tempo come processo
aperto e incompiuto e per questo sempre disponibile ad affacciarsi sul
futuro dell’utopia, quella memoria dei vinti che, come riteneva Reinhart
Koselleck, possiede un contenuto di conoscenza superiore a quella dei
vincitori. Ma che, come la rivoluzione stessa, è inseparabile dalla
malinconia. Senza la triste rimembranza delle occasioni perdute, non si
tornerebbe a riannodarne i fili interrotti. Questa malinconia senza
rassegnazione è, alla fine, la consapevolezza di una storia che, pur
avendo pagato enormi prezzi, non è riuscita a trasformare il mondo come
aveva voluto. E dunque l’affermazione di una impresa che resta ancora da
compiere.