il manifesto 3.12.16
Strappare il velo della Maya
Ultraoltre. Posato sulla invisibile essenza di tutti i fenomeni della realtà ha il potere di ricoprire la vera natura delle cose
di Raffaele K. Salinari
«Watch
out now, take care, beware of soft shoe, dancing down the sidewalks, as
each unconscious sufferer, wanders aimlessly, beware of Maya». «Fai
attenzione, fai attenzione alle morbide scarpe che ballano sui
marciapiedi, e come chi soffre incosciente e, vaga senza meta, guardati
dalla Maya». Così George Harrison apre la sua Beware of Darkness,
canzone iniziale del triplo album del 1970 All things must pass. Il
disco è fortemente influenzato dall’esperienza indiana del «Beatle
tranquillo», che aveva spinto già alla fine degli anni ’60 gli altri
component dei Fab 4 verso quella scuola di pensiero induista diretta da
Maharishi Mahesh Yogi, fondatore e guru della tecnica per la Meditazione
Trascendentale.
Negli stessi anni, precisamente nel 1972, un artista
americano, Chris Burden, si esibiva in una performance chiamata
Deadman: il suo corpo, coperto da un semplice velo di plastica, era
steso nel parcheggio di una superstrada californiana, come un semplice
rifiuto; se un’automobile lo avesse investito avrebbe potuto morire.
Nell’agosto
del 2015 un naufrago bengalese veniva recuperato da un peschereccio di
Lampedusa. Tratto in salvo dichiara ai suoi soccorritori: «Molte barche
sono passate davanti a me ma voi avete guardato oltre la Maya del mare».
IN ORIENTE
Cos’è
dunque questa Maya dalla quale ci si deve guardare per non «soffrire
incoscienti e vagare senza meta»? O che acceca la vista di chi vede solo
il mare? E cosa rappresenta, analogamente, il sottile strato di materia
plastica che separa dalla vista dell’automobilista che sta
parcheggiando il corpo di Chris Burden?
Ebbene tutti i suoi
molteplici significati sono simboleggiati, sia in Oriente sia in
Occidente, da una immagine, quella del velo, il velo della Maya appunto,
come lo definirà Arthur Schopenhauer nel suo Il mondo come volontà e
rappresentazione. Drappeggiato sull’invisibile essenza di tutti i
fenomeni della realtà, ha il potere di farli apparire ed al tempo stesso
di ricoprire la vera Natura delle cose, che però si rende accessibile
dopo lo svelamento, dopo che il velo della Maya è finalmente caduto, o è
divento abbastanza sottile da permetterci di gettare oltre uno sguardo
perspicuo.
Per il potere della Maya – al femminile in sanscrito, come
tutto ciò che afferisce alla sfera creazionale – agli occhi
dell’umanità inconsapevole il Mondo appare come una successione di
eventi, di oggetti: questo ci incatena al ciclo di una esistenza
«penosamente frammentaria» (samsara), come sostiene C.G. Jung nel Libro
Rosso, perché percepisce solo la persistenza dell’essere ma non il suo
divenire, velando così lo sguardo sulla reale Natura che giace dentro ed
oltre di essa. Scopo della vita, invece, è sollevare questo velo per
cogliere l’essenza che la genera. Sollevare il velo della Maya significa
percepire finalmente la matrice che tutto crea e tutto connette
incessantemente, e questa visione genera la liberazione (moksa). Esserne
consapevoli è l’unica strada per conquistare il senso della vita,
essere un «risvegliato in vita», un jivanmukta in sanscrito, colui che
esperisce la connessione col Principio Creatore e non solo con le sue
illusorie e fallaci apparenze. Ma, e qui sta il suo arcano, quando si
percepisce ciò che giace nel fenomeno, ciò che è inessivo ad esso, al
contempo lo si ricrea, si ricrea l’incanto alla sorgente del Mondo.
LA FONTE INIZIATICA
La
natura di questa forza illusoria è ben illustrata dalla storia
tradizionale indiana di un asceta semidivino, Narada, che una volta
chiese direttamente all’Essere Supremo (Visnù) che gli mostrasse il
potere della sua Maya. Nārada, nella mitologia indù, è uno dei modelli
preferiti del saggio «sul sentiero della devozione» (bhakti-mārga).
Quando
Narada ebbe espresso umilmente la sua profonda aspirazione, il dio lo
istruì, non verbalmente, bensì sottoponendolo ad una atroce avventura.
Quindi gli disse: «tuffati nell’acqua e sperimenta il segreto della mia
Maya». Narada si immerse nel laghetto e ne riemerse trasformato in
Susila, La Virtuosa, la figlia del re di Benares; e poco dopo, quando fu
nel fiore degli anni suo padre la diede in sposa al figlio del re del
Vidarbha, suo vicino. Tuttavia col passare del tempo, fra lo sposo ed il
padre di Susila scoppiò una guerra furibonda. In una sola tremenda
battaglia molti dei suoi figli e nipoti furono uccisi.
Fece dunque
costruire una pira gigantesca e vi pose sopra i cadaveri dei suoi figli.
Con le sue mani appiccò il fuoco alla pira, e quando le fiamme
ruggirono si gettò nel fuoco. La vampa divenne immediatamente fresca e
trasparente; la pira divenne un laghetto e in mezzo all’acqua Susila
trovò se stessa, ma nelle spoglie del santo Narada. Il dio Visnù,
tenendolo per mano, lo stava conducendo fuori dal laghetto, chiedendogli
con un sorriso ambiguo: «Chi sono i figli di cui lamenti la morte?».
Narada
pregò allora che gli fosse concessa la grazia di ricordare
quest’esperienza per tutto il tempo a venire, e chiese inoltre che il
laghetto, come fonte iniziatica, potesse divenire un luogo sacro di
pellegrinaggio. Questa versione è riportata nel libro di Heinrich
Zimmer, Miti e simboli dell’India.
L’essenza del racconto sta nello
svelamento che la Maya è l’Esistenza stessa sia nella sua forma
visibile, peritura e transeunte, sia nella sua essenza invisibile,
perenne al di là di ogni dualismo. Il Mondo, per l’induismo, è, infatti,
mayamaya, cioè «costituito dalla maya»; è questa la conoscenza che il
mito si propone di svelare attraverso la capacità magica,
trasformatrice, delle acque. Giustamente, fa notare Zimmer, che qui
l’acqua rappresenta la sostanza del principium individuations, poiché la
nostra personalità individuale, consapevole, la psiche della quale
siamo consci, il personaggio il cui ruolo impersoniamo socialmente o in
solitario isolamento, è comunque nutrito, come in un microcosmo mentale
ed emotivo, dall’elemento fluido dell’inconscio. Quest’ultimo di fatto
rappresenta una potenzialità per larga parte sconosciuta, distinta dal
nostro essere cosciente: molto più vasta, molto più complessa, potremmo
anche dire segreta se non addirittura incomprensibile e paurosa, e che
tuttavia ne rappresenta il fondamento profondo, la sostiene ed è in
comunione con essa, le circola attraverso come un fluido vivificante,
ispiratore e spesso perturbante, eppure in qualche modo da esso
separata: come può essere simboleggiato da un velo che ci ondeggia
dinanzi allo sguardo separando conscio ed inconscio.
Wendy Doniger,
in Sogni, illusione ed altre realtà, ci rammenta che il potere della
Maya non si esercita dunque sui fenomeni, poiché essi sono la Maya,
bensì sulla consapevolezza dell’uomo: quanto più essa è ottusa – per
paura, insicurezza, avidità, ignoranza – tanto più il velo si
inspessisce divenendo alla fine un manto oscuro che ci separa dal senso
della nostra stessa esistenza.
Sollevare il velo della Maya, o
renderlo traslucido, è allora un’esperienza iniziatica, come quella che
ha vissuto il saggio Narada: egli, finalmente, apre gli occhi sulla
Realtà sui generis che giace «dentro» i fenomeni apparenti, svelando lo
sguardo con il quale l’uomo risvegliato guarda al Mondo.
IL DRAPPO DI ISIDE
Quid fuit, quid est, quid erit
Ma
la metafora del velo che copre l’essenza delle cose non è solo legata
alla filosofia indiana, anzi: appare esplicitamente citata anche
nell’antica opera di Plutarco Iside ed Osiride. Su quella che si diceva
essere un tempo la tomba di Iside, vicino a Menfi, ci dice l’autore, era
stata eretta una statua ricoperta da un velo nero. Sulla base della
imponente e misteriosa figura era incisa questa iscrizione: «Io sono
tutto ciò che fu, ciò che è, e ciò che sarà, e nessun mortale ha ancora
osato sollevare il mio velo».
Questo è il Velo di Iside, divinità
antichissima che simboleggia la Natura, cioè la Natura naturans, ed al
contempo la varietà delle sue varie forme: l’insieme cioè della Zoè e
delle sue Bìos, secondo la distinzione greca tra la Vita senza
caratterizzazioni, incondizionata, la Zoè appunto, e le sue espressioni
caratterizzate, le Bìos.
Perché Iside è velata? Già Eraclito di
Efeso, in uno dei suoi frammenti più discussi ci dice che «la Natura ama
velarsi», ed infatti Plutarco, descrivendo la versione più comune del
mito che lega Iside ed Osiride, così descrive il velo che copre la Dea
in opposizione a quello che invece riveste il suo sposo: «Tinte di
colori diversi sono la veste di Iside, a segno del suo potere sulla
materia, la quale accoglie tutte le forme e tutte le vicissitudini
subisce, potendo diventare luce e tenebra, giorno e notte, fuoco e
acqua, vita e morte, inizio e fine. Ma senza ombra né varietà e la veste
di Osiride, che ha un solo colore, quello delle luce. Il Principio,
infatti è vergine di ogni mescolanza: l’essere primordiale ed
intelligibile è essenzialmente puro. Così i sacerdoti non rivestono che
una sola volta Osiride della sua veste, per subito riporta e non
mostrarla mai né toccarla mai… La visione dell’Essere… non si può
ottenere o percepire che in un solo istante».
Questa visione mistica
della realtà al di là del velo che la ricopre è esattamente quella che
propone Eraclito con il suo frammento sul nascondimento della Natura.
Egli intende darci una traccia di come superare il dualismo che separa
l’uomo dalla realtà intima delle cose.
KANT E SCHOPENHAUER
Dopo
più di venticinque secoli da Eraclito ritroviamo una interpretazione
politico-etica del velo della Maya nell’opera di Schopenhauer Il mondo
come volontà e rappresentazione, dove il filosofo cerca di innestare
sulla visione del pensiero occidentale contemporaneo, duale e scisso,
quella orientale, ricongiungente e non duale. Schopenhauer parte infatti
dalle categorie di Kant, con la nota distinzione tra fenomeno e noumeno
(o cosa in sé), per rovesciarle completamente o meglio, ricongiungerle.
Per
Kant, notoriamente, il fenomeno è la realtà, o almeno l’unica realtà
conoscibile e accessibile agli «a priori» che informano la mente umana;
per Schopenhauer invece il fenomeno è illusione, sogno e parvenza:
esattamente ciò che nella filosofia indiana abbiamo visto essere il Velo
della Maya.
Ma, mentre l’essenza della realtà, o noumeno, che si
nasconde dietro il fenomeno, per Kant restava inconoscibile, per
Schopenhauer esso può essere percepito e di conseguenza è possibile
squarciare il velo della Maya, ma come?
Attraverso la «volontà di
vivere»: la forza creativa e impersonale alla base di tutte le cose che
ne costituiscono l’oggettivazione. Questa è allora l’esperienza fondante
attraverso cui possiamo percepirci sia dall’esterno, come
rappresentazione, sia dall’interno come «vissuto diretto», come corpo
vivente di una Bìos immersa pienamente nel flusso della Zoè. Non è
questo allora che informa di sé l’esperienza di Chris Burden? In
Deadman, non solo la realtà corporea dell’artista, ma la sua stessa
essenza vitale, il suo Invisibile, è separato dallo sguardo diretto solo
da un sottile velo che può essere squarciato in ogni momento. Per
questo Arthur Danto nel suo La destituzione filosofica dell’arte, in
particolare nel capitolo Arte e perturbazione, prendendo in
considerazione queste forme di performance le classifica come «arti
della perturbazione», nel senso che sono in grado di rendere
indistinguibile i confini tra artefatto e realtà.
Riferendosi a
Deadman, Danto la definisce una «perturbazione» perché quel gesto è in
grado di ridisegnare i confini tra arte e vita: qui la «perturbazione»
consiste nell’infrangere la distanza tra le due per includere la realtà
come componente artistica effettuale. In tal modo si elimina la
distinzione tra arte e realtà: «Burden avrebbe potuto essere ucciso,
sapeva che sarebbe potuto succedere, e voleva che questo fatto facesse
parte dell’opera e che fosse ciò a cui si rispondeva quando si
rispondeva emotivamente all’opera. Non accadde, ma sarebbe potuto
accadere senza violare i confini dell’opera, perché l’opera incorporava
quei confini come parte della propria sostanza«. Incorporava: non il
corpo che si fa arte attraverso un gesto estremo, ma il gesto estremo
che si fa corpo, restituisce corporeità alla vita.
ARENDT ED ERACLITO
La
linea interpretativa che lega disvelamento e rinascita, potere della
mente e creazione personale e collettiva del Mondo, è spinto alle sue
estreme conseguenze esistenziali da Hanna Arendt nell’incompiuto La vita
della mente. Già Giorgio Colli riferendosi al frammento di Eraclito,
traduce «Natura» con «Nascimento» e dunque: «Il Nascimento ama
nascondersi». Nel commento è chiarito che «Natura» è qui intesa come
Natura trascendente, la Natura naturans, il «Principio» che nonostante
abbia creato le apparenze, i fenomeni, si mantiene inaccessibile ad uno
sguardo puramente raziocinante e scientista. Sicché Natura è l’Origine,
come dice Angelo Tonelli nel suo Eraclito, dell’Origine: «Ciò che
origina si cela, come mistero, dietro l’apparenza delle cose che
origina, pur manifestandosi anche attraverso di esse. Ogni
manifestazione del principio è anche suo nascondimento: tale l’ambiguità
del cosmo in cui viviamo, e di tale ambiguità il sapiente reca
consapevolezza. La conoscenza diventa flusso dinamico, tensione al
congiungimento con ciò che origina».
ESTETICA FRAGILE
Ma oggi chi è
in grado di catalizzare il nostro stupore tanto da farci ritrovare
nella quotidianità un accesso alla «totalità non manifesta»? E ancora,
chi coniuga insieme i concetti di Schopenhauer e l’estetica di Arthur C.
Danto, incarnando con la propria «volontà di vivere» una vera e propria
performance di «arte perturbazionale»? Certo i migranti. Questi corpi
che attraversano lo spazio, autentiche metafore viventi, squarciano il
velo di una realtà per noi ancora invisibile. Per la sensibilità
narcotizzata e secolarizzata dell’Occidente, quelle che consideriamo
sovente non-persone, arrivando da oltre le Colonne d’Ercole del nostro
sguardo sul quotidiano sono in grado, mercé la loro fragilità, di
generare e trasmetterci una «volontà di vivere» che può agire da
controveleno della nostra mortificazione morale. La fragilità si ribalta
così nella forza di chi non ha nulla da perdere. La consapevolezza di
questo contare nulla per l’Occidente liberista permette ai migranti di
spingersi al di là del già visto, al di là del conosciuto: se la mia
vita è senza valore per voi che non mi vedete- accecati dalla Maya del
mare – allora io me le riprendo sotto i vostri stessi occhi rischiando
la morte. Massima fragilità uguale massima resilienza: massima negazione
potenziale, la morte, massima affermazione in atto, la mia volontà di
vivere. Il malessere perturbante che ci assale alla loro vista e che
nessuna misura di «sorvegliare e punire» può cancellare dall’anima, è in
realtà generato dall’oscura consapevolezza che il nostro insensato
stile di non-vita dipende in definitiva dal loro non-essere. La
performance permanente della loro «apparizione» sui nostri territori
afferma così l’emergere di una soggettività che invece vorremmo
affondare insieme ai loro corpi. Ogni espressione performativa migrante
sdrucisce allora la compattezza della Maya biopolitica che impedisce di
accedere alla nostra stessa «volontà di vivere». Questa semplice
evidenza diviene dunque l’inizio di una sfida che ha come posta
emozionale la nostra stessa percezione del Mondo. Il velo diviene a poco
a poco traslucido: balugina la luce delle ombre splendenti di chi
affronta il rischio supremo pur di affermare la dignità della propria
esistenza.