Corriere 3.12.16
Il culto di Petrarca (per se stesso)
Annotava tutto, registrava, chiosava. Senza distinguere tra vita e letteratura
di Marco Santagata
Centinaia
 e centinaia di lettere, un’autobiografia Ad posteritatem , un dialogo 
introspettivo, il Secretum , dominato per intero dal proprio io, una 
miriade di note e di postille depositate sugli autografi, sui margini 
dei libri, una cura maniacale, diciamo pure nevrotica, a segnare le date
 — giorno, mese, spesso l’ora — di eventi della sua attività di 
scrittore, di studioso, di uomo pubblico e perfino privato, fino al 
punto da giungere ad annotare anche i giorni nei quali aveva ceduto ai 
piaceri della carne: insomma, una costante esibizione di sé sorretta e 
avvalorata da un imponente apparato documentario. Una tale mole di 
informazioni ci consente di dire che di nessun personaggio prima di 
Petrarca conosciamo la biografia in modo più dettagliato.
Il problema
 è che tanti dettagli faticano a comporsi in un ritratto coerente e, 
soprattutto, fondato. Essi, infatti, ci vengono tutti da lui, e perciò, 
in quanto autobiografiche, sono già di per sé testimonianze da prendersi
 con le molle. Nel suo caso, poi, la prudenza è quanto mai necessaria, e
 per molte buone ragioni. Per esempio, una non da poco è che la sua 
necessità di fissare il tempo con puntuali indicazioni cronologiche si 
accompagna a una vera e propria coazione a riscriversi e a cancellare il
 già scritto, il che rende spesso aleatori anche paletti che 
sembrerebbero certi. Insomma, anche quando ci illudiamo di camminare su 
un terreno solido, ben presto scopriamo di essere incappati nelle sabbie
 mobili.
La ragione principale, però, è che Petrarca mente, o meglio,
 mescola in modo inestricabile realtà e finzione, verità e 
mistificazione, dati certi e affermazioni arbitrarie. Non per il gusto 
di mentire, ma si potrebbe perfino dire per necessità culturale: 
convinto che non ci sia alcun diaframma tra vita e letteratura e 
intenzionato a trasmettere di sé un ritratto ideale, un modello, ecco 
che costruire un’opera complessiva che abbracciasse insieme esperienze 
di vita ed esperienze letterarie e che fornisse una lettura unitaria del
 suo essere uomo, intellettuale e poeta diventava per lui una strada 
obbligata. Il problema è tutto nostro, di noi che, irretiti nel suo 
gioco, cerchiamo a fatica di decifrarne i meccanismi, di distinguere ciò
 che lui non voleva distinguere. Ecco perché le pur pregevoli biografie 
in circolazione non possono non disperdersi in ridde di ricostruzioni 
minute e ipotetiche, un labirinto nel quale spesso si perdono il senso 
dei dati biografici e culturali e, in ultima analisi, viene a svanire la
 vera identità di Petrarca, sommersa da quella che lui intendeva 
imporci.
Forse ci voleva proprio uno studioso come Francisco Rico per
 fornirci un’agile biografia che con mano sicura sceverasse il certo 
dall’incerto, ciò che è della vita e ciò che è del progetto petrarchesco
 di rilettura della propria vita. Rico lo fa, in collaborazione con Luca
 Marcozzi, nella seconda parte del dittico in cui è suddiviso I venerdì 
del Petrarca (Adelphi). Il loro ritratto essenziale restituisce 
l’immagine più vicina all’originale, come se uscisse da un restauro. 
Molti tratti ci erano noti, ma altri emergono con inusuale nitidezza: 
penso, ad esempio, a quanta attenzione Petrarca abbia dedicato per tutta
 la vita ai rapporti con i protettori e i mecenati e alla sua abilità 
nel procurarsi sostanziose fonti di sostentamento. Rico era la persona 
più adatta a operare il restauro, perché, più di ogni altro, mettendosi 
nella scia di Giuseppe Billanovich, ha innovato il modo di leggere 
Petrarca. Si deve proprio a lui, a cominciare da un libro che ha segnato
 una svolta negli studi petrarcheschi, quel Vida u obra de Petrarca , 
uscito in Italia, da Antenore, nel 1974, in castigliano, e di cui si 
desidererebbe come di pochi altri una traduzione in italiano, si deve a 
lui la ricostruzione più affascinante delle strade tortuose lungo le 
quali Petrarca si è costruito come personaggio mescolando vita e 
letteratura, lasciandoci sempre nel dubbio se ciò che leggiamo sia vita o
 letteratura.
Rico ha il dono, oggi sempre più raro, di coniugare 
rigore filologico e inventività, solidità erudita e ardire 
interpretativo. Sotto la sua penna la filologia diventa militanza. E la 
sua filologia militante ha il pregio ulteriore di cercare nuove 
frontiere, di misurarsi con ipotesi che la stanca filologia dei nostri 
tempi nemmeno saprebbe formulare. Assodato che nei suoi scritti Petrarca
 «non mira tanto a narrarsi quanto a costruirsi, a esibire l’immagine 
ideale che vorrebbe darsi di se medesimo, o al limite l’immagine che lui
 ha di se medesimo», ecco che Rico, quasi mettendosi in gara, lui 
filologo con gli amici romanzieri e il loro culto dell’immaginazione, si
 chiede se per Petrarca, in non pochi momenti e comportamenti, «i fatti 
abbiano lo stesso valore di un testo letterario, anzi funzionino come 
tale, lo sostituiscano».
È una domanda complementare e opposta a 
quella che ha guidato l’indagine sul Petrarca che impone ai fatti 
l’interpretazione letteraria. Ne esce l’ipotesi di un’autobiografia 
segreta della quale farebbero parte «non poche pagine che il poeta non 
scrisse affatto, ma che piuttosto visse come se ne stesse scrivendo, 
oppure come se stesse ricalcando ciò che effettivamente aveva o avrebbe 
scritto». L’ipotesi è felicemente sperimentata nel primo dei due 
dittici, quello che dà il titolo al libro. Appurato che il riferimento a
 questo giorno della settimana si presenta con insistenza negli scritti 
petrarcheschi, Rico si chiede cosa rappresentasse il venerdì per 
Petrarca.
A partire da questa domanda si snoda un percorso tra 
archetipi culturali e privati investimenti emotivi, un viaggio critico 
che costeggia alcuni dei miti più tenaci dell’immaginario petrarchesco. 
Il viaggio, zigzagante e imprevedibile, tiene avvinto il lettore. Alla 
fine (ma Rico la anticipa all’inizio) emerge la risposta: «Il venerdì 
del Petrarca non è il venerdì nefasto della superstizione popolare, né 
solamente il venerdì devoto del cristiano: è il giorno che non passa 
inosservato, senza far sentire la propria singolarità... È uno degli 
archetipi e termini di paragone che servono a Francesco per situarsi nel
 mondo». Non una bizzarria, sia chiaro, né un vezzo, ma una necessità 
psicologica. Come negli scritti Petrarca cerca di proteggere la propria 
identità di depresso «dissimulandola sotto quella di un modello 
prestigioso», cioè costruendosi in personaggio, così, parallelamente, 
nella vita ricorre «a fissazioni, riti, schemi e paradigmi temporali». 
Il venerdì è uno di questi.
 
