sabato 3 dicembre 2016

Corriere La Lettura 23.11.14
Il maschio è diventato inutile? Poco male
Il maschio è inutile è il titolo preoccupante e liberatorio di un libro di Telmo Pievani e Federico Taddia
Un pamphlet scritto per denunciare la definitiva sparizione del cacciatore del Pleistocene e cercare in natura occasioni di riscatto
Ma la storia è più complessa
di Francesco Piccolo


Il maschio è inutile è il titolo preoccupante e liberatorio di un libro di Telmo Pievani e Federico Taddia. Il saggio è scanzonato, e muove da una premessa ardita ma folgorante. Poi, andando avanti, l’accumulo di esempi del mondo animale e di storie di uomini confonde, più che chiarire; anche se rivela un bel po’ di interessanti curiosità scientifiche, e delinea un’umanità bizzarra. In pratica, si parte dall’idea che il maschio, dopo essere stato ingabbiato in una funzione precisa e utile — fin dal Pleistocene, quando aveva il compito di cacciare e procurarsi cibo — si stia sfaldando verso una inutilità irreversibile. Cioè, per semplificare, prima i maschi facevano i maschi, e le femmine facevano le femmine. Adesso i ruoli si confondono, così come si confondono le antiche regole sessuali, e questo è senz’altro positivo, ma deve per forza avere delle controindicazioni.
L’inutilità è una di quelle: l’uomo subisce questo cambiamento, diventa il sesso debole, mentre la donna ha un futuro evolutivo sempre più luminoso. Nel regno della natura, «in alcune specie di pesci i maschi sono diventati nani parassiti. In altri casi, il maschio si è trasformato in una vera e propria appendice, minuscola, penzolante dal corpaccione della femmina: in pratica, uno scroto ambulante. Neanche in un fantahorror femminista ci sarebbero arrivati. In altri casi ancora le femmine decidono, all’occorrenza, se diventare momentaneamente maschi oppure no. Fanno tutto da sole. Il maschio per loro è inutile. Altre volte ancora le femmine restano femmine, ma imitano i maschi e conducono in perfetta autonomia tutti i giochi sociali. Si autofecondano, generano la prole successiva e come amazzoni tramandano le loro società di sole femmine clonate». Tra i mammiferi, il maschio si starebbe biologicamente estinguendo e le femmine di primati dovranno trovare soluzioni alternative per far proseguire l’evoluzione. E lo faranno.
Allora, queste controindicazioni sono davvero terribili? Alla domanda i due autori rispondono con un colpo di reni: l’inutilità è un’occasione di riscatto. «Sappiamo che nella storia l’inutilità si è rivelata spesso come un serbatoio di cambiamento, come una riserva di diversità alla quale attingere nei momenti di crisi, quando le logiche dominanti si sgretolano. Scopri in quel momento che qualcosa era inutile solo perché non avevi capito a che cosa serviva, oppure che era davvero inutile ma da un punto di vista ristretto e temporaneo. Quando il contesto cambia, l’inutile passa al contrattacco». Quindi l’inutilità è un luogo di libertà, di riscatto, di creatività e soprattutto di innovazione: soltanto dalla mancanza di necessità possono arrivare sperimentazioni sorprendenti.
La prima riflessione che viene da fare, quindi, è la seguente: quando è stata la femmina a essere individuata come debole, tendente verso l’inutile (o presunta inutile), questa ipotesi poteva bastare a se stessa. Il sesso debole era debole e basta, non c’era nient’altro da aggiungere. Invece noi maschi, appena ci troviamo di fronte a un processo negativo, cominciamo a muovere armate di pensieri, di esseri pensanti e di cose pensate, e alla fine capovolgiamo il senso negativo in positivo. Anzi, in molto positivo. L’inutilità è una specie di luogo della felicità liberata. E lo scopriamo adesso che riguarda i maschi, non lo abbiamo scoperto quando riguardava le femmine. Già questo è molto interessante. E divertente.
In realtà, a conti fatti, questa storia dell’utilità dell’inutile è sensata. Tutto quello che desidera un essere umano adulto responsabile (uomo o donna che sia) è essere libero da responsabilità. Partire dall’irresponsabilità della fanciullezza, entrare nel periodo della responsabilità, e fare di tutto per uscirne al più presto, e con danni minimi. Questo è il ciclo della vita di un essere umano nell’età contemporanea. Giungere a vagare per il mondo senza una meta o una funzione, o starsene sdraiati su un divano senza lottare con i sensi di colpa. Tutto ciò che vuole un essere umano è il dì di festa, o meglio la sera prima, quando domani non abbiamo niente da fare. È una continua tensione verso le giornate inutili.
Noi maschi, poi, siamo stati molto entusiasti quando abbiamo letto un articolo ormai famoso di Lori Gottlieb sul «New York Times Magazine», in cui viene dimostrato da alcuni studi (in cui noi comunque crediamo, che abbiano carattere scientifico o no) che la conduzione di vita di coppia assolutamente alla pari, come è consuetudine dell’età contemporanea, crea scompensi notevoli alla vita sessuale. Il desiderio della donna cala in proporzione alla capacità collaborativa dell’uomo: «L’aspirapolvere avrebbe ucciso il desiderio suscitato dai muscoli» (l’applicabilità di questa frase a ogni maschio non dipende tanto dal genere di aspirapolvere ma dal genere di muscoli).
A sorpresa questa teoria pone in conflitto il desiderio che si ha del maschio con la sua collaborazione domestica — e cioè dice che la positività della parità è bilanciata con una perdita del desiderio da parte della donna, perché il maschio quotidiano perde molto della sua forza attrattiva. Tutti i maschi che hanno letto questo articolo lo conservano nel portafogli per tirarlo fuori e sventolarlo minacciosamente ogni volta che c’è da sparecchiare la tavola o lavare i piatti. E la delusione più cocente è che le donne, tra la conservazione del desiderio e i piatti puliti, scelgono quasi sempre i piatti puliti. Cioè, a quell’uomo del Pleistocene, al quale volentieri torneremmo, non si può tornare più.
Il mito del sesso è diventato inutile. E anche questa deve essere opera del pensiero dominante maschile: se il sesso debole siamo noi, allora il sesso perde centralità, si svilisce, la varietà sessuale si moltiplica e la complessità serve anche ad allontanare l’attenzione dall’inutilità e dalla debolezza. Ma, come dicono Pievani e Taddia, è anche il contrario: l’inutilità produce diversità. E quindi la varietà è anche figlia della debolezza del maschio. L’uovo e la gallina, come al solito.
In fondo, siamo tutti contenti che il maschio alla Lando Buzzanca o alla Alberto Sordi non esista più; o se esiste, venga indicato subito come patetico. E noi maschi siamo tutti contenti di non avere l’obbligo della seduzione davanti a qualsiasi donna piacevole, che spesso si trasforma in molestie e non ce ne accorgiamo. Se la violenza è aumentata, dicono gli autori, è proprio in relazione a questo processo di debolezza — è la reazione del maschio alla sua perdita di centralità. E non c’è nemmeno da fare un distinguo tra maschi che vestono bene i nuovi ruoli, e maschi che non riescono ad accettarli. Tutt’e due queste cose convivono benissimo in ogni singolo maschio: ognuno è allo stesso tempo fragile e violento, evoluto e involuto, progressista e reazionario, moderno e primitivo. Ma il processo rimane comunque ineluttabile: e anche i maschi che si ribellano e perseguono lo stereotipo sociale, si rivelano inutili. Non c’è possibilità di mettere un freno al processo evolutivo che accelera il suo moto e ingigantisce mentre raccoglie consenso.
Evidentemente l’evoluzione comporta debolezza, fragilità, inutilità — e in più, abbassamento del desiderio. Ma a scavare ancora sotto la verità, si può dire che tutti questi elementi esistevano già, e il tempo è servito semplicemente a un lavoro di eliminazione dell’involucro — come quei regali che sono dentro pacchi complicati e bisogna ingegnarsi molto per riuscire ad aprirli. Tutta la problematicità del maschio pre-esisteva e ribolliva sotto l’armatura di comodo, di potere, (sotto)culturale. Ed è per questo che alcuni maschi un po’ consapevoli si sentono finalmente liberati. L’evoluzione del maschio quindi non è soltanto un processo dall’utile all’inutile, ma anche un cammino verso l’autenticità.