Corriere La Lettura 23.11.14
Il maschio è diventato inutile? Poco male
Il maschio è inutile è il titolo preoccupante e liberatorio di un libro di Telmo Pievani e Federico Taddia
Un
 pamphlet scritto per denunciare la definitiva sparizione del cacciatore
 del Pleistocene e cercare in natura occasioni di riscatto
Ma la storia è più complessa
di Francesco Piccolo
Il
 maschio è inutile è il titolo preoccupante e liberatorio di un libro di
 Telmo Pievani e Federico Taddia. Il saggio è scanzonato, e muove da una
 premessa ardita ma folgorante. Poi, andando avanti, l’accumulo di 
esempi del mondo animale e di storie di uomini confonde, più che 
chiarire; anche se rivela un bel po’ di interessanti curiosità 
scientifiche, e delinea un’umanità bizzarra. In pratica, si parte 
dall’idea che il maschio, dopo essere stato ingabbiato in una funzione 
precisa e utile — fin dal Pleistocene, quando aveva il compito di 
cacciare e procurarsi cibo — si stia sfaldando verso una inutilità 
irreversibile. Cioè, per semplificare, prima i maschi facevano i maschi,
 e le femmine facevano le femmine. Adesso i ruoli si confondono, così 
come si confondono le antiche regole sessuali, e questo è senz’altro 
positivo, ma deve per forza avere delle controindicazioni. 
L’inutilità
 è una di quelle: l’uomo subisce questo cambiamento, diventa il sesso 
debole, mentre la donna ha un futuro evolutivo sempre più luminoso. Nel 
regno della natura, «in alcune specie di pesci i maschi sono diventati 
nani parassiti. In altri casi, il maschio si è trasformato in una vera e
 propria appendice, minuscola, penzolante dal corpaccione della femmina:
 in pratica, uno scroto ambulante. Neanche in un fantahorror femminista 
ci sarebbero arrivati. In altri casi ancora le femmine decidono, 
all’occorrenza, se diventare momentaneamente maschi oppure no. Fanno 
tutto da sole. Il maschio per loro è inutile. Altre volte ancora le 
femmine restano femmine, ma imitano i maschi e conducono in perfetta 
autonomia tutti i giochi sociali. Si autofecondano, generano la prole 
successiva e come amazzoni tramandano le loro società di sole femmine 
clonate». Tra i mammiferi, il maschio si starebbe biologicamente 
estinguendo e le femmine di primati dovranno trovare soluzioni 
alternative per far proseguire l’evoluzione. E lo faranno. 
Allora, 
queste controindicazioni sono davvero terribili? Alla domanda i due 
autori rispondono con un colpo di reni: l’inutilità è un’occasione di 
riscatto. «Sappiamo che nella storia l’inutilità si è rivelata spesso 
come un serbatoio di cambiamento, come una riserva di diversità alla 
quale attingere nei momenti di crisi, quando le logiche dominanti si 
sgretolano. Scopri in quel momento che qualcosa era inutile solo perché 
non avevi capito a che cosa serviva, oppure che era davvero inutile ma 
da un punto di vista ristretto e temporaneo. Quando il contesto cambia, 
l’inutile passa al contrattacco». Quindi l’inutilità è un luogo di 
libertà, di riscatto, di creatività e soprattutto di innovazione: 
soltanto dalla mancanza di necessità possono arrivare sperimentazioni 
sorprendenti. 
La prima riflessione che viene da fare, quindi, è la 
seguente: quando è stata la femmina a essere individuata come debole, 
tendente verso l’inutile (o presunta inutile), questa ipotesi poteva 
bastare a se stessa. Il sesso debole era debole e basta, non c’era 
nient’altro da aggiungere. Invece noi maschi, appena ci troviamo di 
fronte a un processo negativo, cominciamo a muovere armate di pensieri, 
di esseri pensanti e di cose pensate, e alla fine capovolgiamo il senso 
negativo in positivo. Anzi, in molto positivo. L’inutilità è una specie 
di luogo della felicità liberata. E lo scopriamo adesso che riguarda i 
maschi, non lo abbiamo scoperto quando riguardava le femmine. Già questo
 è molto interessante. E divertente. 
In realtà, a conti fatti, 
questa storia dell’utilità dell’inutile è sensata. Tutto quello che 
desidera un essere umano adulto responsabile (uomo o donna che sia) è 
essere libero da responsabilità. Partire dall’irresponsabilità della 
fanciullezza, entrare nel periodo della responsabilità, e fare di tutto 
per uscirne al più presto, e con danni minimi. Questo è il ciclo della 
vita di un essere umano nell’età contemporanea. Giungere a vagare per il
 mondo senza una meta o una funzione, o starsene sdraiati su un divano 
senza lottare con i sensi di colpa. Tutto ciò che vuole un essere umano è
 il dì di festa, o meglio la sera prima, quando domani non abbiamo 
niente da fare. È una continua tensione verso le giornate inutili. 
Noi
 maschi, poi, siamo stati molto entusiasti quando abbiamo letto un 
articolo ormai famoso di Lori Gottlieb sul «New York Times Magazine», in
 cui viene dimostrato da alcuni studi (in cui noi comunque crediamo, che
 abbiano carattere scientifico o no) che la conduzione di vita di coppia
 assolutamente alla pari, come è consuetudine dell’età contemporanea, 
crea scompensi notevoli alla vita sessuale. Il desiderio della donna 
cala in proporzione alla capacità collaborativa dell’uomo: 
«L’aspirapolvere avrebbe ucciso il desiderio suscitato dai muscoli» 
(l’applicabilità di questa frase a ogni maschio non dipende tanto dal 
genere di aspirapolvere ma dal genere di muscoli). 
A sorpresa questa
 teoria pone in conflitto il desiderio che si ha del maschio con la sua 
collaborazione domestica — e cioè dice che la positività della parità è 
bilanciata con una perdita del desiderio da parte della donna, perché il
 maschio quotidiano perde molto della sua forza attrattiva. Tutti i 
maschi che hanno letto questo articolo lo conservano nel portafogli per 
tirarlo fuori e sventolarlo minacciosamente ogni volta che c’è da 
sparecchiare la tavola o lavare i piatti. E la delusione più cocente è 
che le donne, tra la conservazione del desiderio e i piatti puliti, 
scelgono quasi sempre i piatti puliti. Cioè, a quell’uomo del 
Pleistocene, al quale volentieri torneremmo, non si può tornare più. 
Il
 mito del sesso è diventato inutile. E anche questa deve essere opera 
del pensiero dominante maschile: se il sesso debole siamo noi, allora il
 sesso perde centralità, si svilisce, la varietà sessuale si moltiplica e
 la complessità serve anche ad allontanare l’attenzione dall’inutilità e
 dalla debolezza. Ma, come dicono Pievani e Taddia, è anche il 
contrario: l’inutilità produce diversità. E quindi la varietà è anche 
figlia della debolezza del maschio. L’uovo e la gallina, come al solito.
 
In fondo, siamo tutti contenti che il maschio alla Lando Buzzanca o
 alla Alberto Sordi non esista più; o se esiste, venga indicato subito 
come patetico. E noi maschi siamo tutti contenti di non avere l’obbligo 
della seduzione davanti a qualsiasi donna piacevole, che spesso si 
trasforma in molestie e non ce ne accorgiamo. Se la violenza è 
aumentata, dicono gli autori, è proprio in relazione a questo processo 
di debolezza — è la reazione del maschio alla sua perdita di centralità.
 E non c’è nemmeno da fare un distinguo tra maschi che vestono bene i 
nuovi ruoli, e maschi che non riescono ad accettarli. Tutt’e due queste 
cose convivono benissimo in ogni singolo maschio: ognuno è allo stesso 
tempo fragile e violento, evoluto e involuto, progressista e 
reazionario, moderno e primitivo. Ma il processo rimane comunque 
ineluttabile: e anche i maschi che si ribellano e perseguono lo 
stereotipo sociale, si rivelano inutili. Non c’è possibilità di mettere 
un freno al processo evolutivo che accelera il suo moto e ingigantisce 
mentre raccoglie consenso. 
Evidentemente l’evoluzione comporta 
debolezza, fragilità, inutilità — e in più, abbassamento del desiderio. 
Ma a scavare ancora sotto la verità, si può dire che tutti questi 
elementi esistevano già, e il tempo è servito semplicemente a un lavoro 
di eliminazione dell’involucro — come quei regali che sono dentro pacchi
 complicati e bisogna ingegnarsi molto per riuscire ad aprirli. Tutta la
 problematicità del maschio pre-esisteva e ribolliva sotto l’armatura di
 comodo, di potere, (sotto)culturale. Ed è per questo che alcuni maschi 
un po’ consapevoli si sentono finalmente liberati. L’evoluzione del 
maschio quindi non è soltanto un processo dall’utile all’inutile, ma 
anche un cammino verso l’autenticità. 
 
