il manifesto 2.12.16
Le nuove baie dei Porci e noi
di Tommaso Di Francesco
Le
immagini e le voci che giungono da Cuba sono inequivocabili. Milioni di
persone di ogni età aspettano la carovana con le ceneri di Fidel e
danno il loro personale e collettivo addio all’uomo che considerano
giustamente come il leader che ha difeso, a caro prezzo, l’indipendenza
dell’isola e quelle che possiamo definire come le difficili, minime
quanto straordinarie, conquiste in campo sociale.
Mentre tutto
questo accade, una miriade di altisonanti tromboni di destra e di ex
sinistra si scatena in un nuovo gioco: aprire nuove baie dei Porci,
lanciando vere e proprie aggressioni verbali e scritte.
Prima di
tutto al buon senso e alla verità storica. L’invasione della Baia dei
Porci fu, nel 1961, il tentativo dell’Amministrazione Usa di abbattere
il giovane potere rivoluzionario dell’Avana, fallito per la sollevazione
armata del popolo cubano. Ora quella baia sembra tornare d’attualità.
Il fatto è che a distanza di quasi sessanta anni a Fidel non riescono a
perdonare l’avere garantito che Cuba non diventasse misera come Haiti e
che, nel cortile di casa degli Stati uniti, non venisse aggregata senza
identità e dignità come Porto Rico alle altre stelle americane; non
riescono a perdonarle che l’affermazione della rivoluzione cubana sia
stata d’esempio per l’intero continente, latinomaericano che, negli anni
Settanta subì l’intervento militare dei golpisti locali supportati
dall’Occidente «democratico», Usa in prima fila a ordire il massacro del
Cile di Allende e a coordinare le stragi sanguinose del Plan Condor.
Un
continente intero che poi si riscattò con un dispiegarsi di movimenti,
dal Brasile al Cile, dal Venezuela all’Argentina e alla Bolivia che,
arrivati al potere, realizzarono cambiamenti epocali del potere e delle
condizioni sociali di milioni e milioni di esseri umani. Certo ora i
governi di quella svolta sono dappertutto in crisi, ma la transizione
dai golpe alla democrazia è potuta accadere fra l’altro avendo Cuba come
punto di riferimento. Non gli perdonano a Fidel anche il fatto di avere
sostenuto in Africa le lotte dell’Anc di Nelson Mandela contro
l’apartheid e quelle anticoloniali in Angola, Mozambico e Guinea Bissau.
Non
gli perdonano in buona sostanza l’avere dimostrato che «ribellarsi è
giusto». Per questo Obama e quasi tutti i leader europei non vanno ai
funerali di Fidel (come non va Putin per «rispetto» al neoeletto Donald
Trump).
E sfottono sulla libreta, la carta annonaria cubana che dà
diritto ai beni alimentari essenziali, non sapendo che negli avanzati
Stati uniti 30milioni di persone vivono con la più semantica food card;
sfottono sulla egualitaria sanità cubana, dimenticando che a soli 6 km
dalla Casa bianca, a Washington, nel famigerato e nascosto ghetto nero
di Anacostia c’è una così alta mortalità infantile da essere denunciata
nelle statistiche di Save the Children e delle Nazioni unite; strillano
sui diritti umani ma scordano che il campo di concentramento di
Guantanamo – base militare Usa in terra cubana – è una vergogna del
mondo e di ogni diritto internazionale che si rispetti.
Sono queste aggressioni ignoranti le nuove invasioni della baia dei Porci.
Detto
questo però, per noi resta decisivo un ragionamento. Se non vogliamo
avere un atteggiamento solo celebrativo, dobbiamo considerare che non
sarà la nostra solidarietà verbale a salvare dal nuovo isolamento a cui
Cuba sarà di nuovo costretta per l’avvento di Trump – meraviglioso
prodotto del disastro democratico statunitense. Solo una capacità di
critica positiva delle trasformazioni realizzate a Cuba come delle
difficili, contraddittorie riforme avviate da Raúl Castro, sosterrà lo
sforzo di continuare quell’esperienza rivoluzionaria. E insieme solo la
ripresa di una iniziativa politica e di movimento per la trasformazione
radicale del potere e del modello di sviluppo qui, nelle cittadelle
avanzate del capitalismo, in Occidente, potrà rompere una logica rituale
e immobile per fare dell’addio a Fidel Castro una testimonianza
concreta di nuovo impegno. Hasta siempre.