il manifesto 2.12.16
Atalya, refusenik: «Noi rifiutiamo le armi, voi sospendete la vendita a Israele»
L'intervista.
Atalya Ben-Abba ha 19 anni e ha deciso di non entrare nell’esercito
israeliano. Per questo a febbraio sarà processata. «Non mi piace parlare
di conflitto, non corrisponde alla verità. Non combattiamo altri
soldati. Si tratta di civili che combattono contro gli occupanti»
di Simone Pieranni
Atalya
Ben-Abba ha diciannove anni. È nata e vive a Gerusalemme Ovest. Atalya
si è rifiutata di entrare nell’esercito israeliano e per questo verrà
processata il prossimo febbraio. Per Israele, il suo paese, è una
traditrice. Ieri, in occasione della giornata internazionale di
solidarietà ai refusenik, l’abbiamo incontrata. Questa è la sua storia.
«SONO
NATA A GERUSALEMME, dove vivo tutt’ora. Quando avevo dodici anni mio
fratello decise di non entrare nell’esercito; in Israele si tratta di un
obbligo civile: guerra, conflitto e violenza fanno parte della nostra
vita fin da quando siamo bambini. Io sono cresciuta proprio al confine
tra Gerusalemme est e Gerusalemme ovest, nel quartiere di Musrara, posto
precisamente a cavallo tra due mondi completamente diversi. C’è una
grande differenza: a est è Palestina, da piccola con mia madre ho
percorso tante strade in quella zona, mi sembrava di essere in un paese
diverso, perché la differenza tra i due luoghi è clamorosa. Vedevo le
demolizioni, gli scheletri delle case e c’erano soldati dappertutto.
Insieme
a questi ricordi ho quello del primo attacco: venne ucciso il guardiano
della mia scuola, avevo sette anni. Ricordo grandi cerimonie in sua
memoria. Lì ho preso coscienza per la prima volta del cosiddetto
«conflitto» tra Israele e Palestina, ma devo specificare una cosa: non
mi piace parlare di «conflitto» perché non è così, questa espressione
non corrisponde alla verità, ovvero un’occupazione. La scuola dove sono
cresciuta è considerata di sinistra, ho trascorso la mia infanzia nel
rispetto «dell’altra parte». Fin da piccola ho visto loro, «i
palestinesi», così come i soldati, i «nostri», e sono stata fin da
subito in grado – o così mi piace pensare – di scorgere il lato umano
della questione.
MOLTI MIEI COETANEI vivono nella costante «paura»
dell’altro, come fossero mostri. A undici anni ho cambiato scuola e
tutto è stato diverso, fin da subito: per la prima volta ho incontrato
ragazzi della mia età che vivevano una vita completamente pervasa dal
sentimento dell’odio nei confronti dei palestinesi. Non si può dire
fosse una scuola di sinistra. Io mi sono sempre considerata di sinistra,
la mia famiglia nonostante le nostre vicissitudini è una famiglia di
sinistra. Questa condizione significava avere molti argomenti dalla mia
parte e osservando i miei nuovi compagni di scuola mi chiedevo come si
potesse essere così razzisti. A un certo punto mio fratello decise di
non entrare nell’esercito: si è trattato di un fatto molto scioccante
per me, perché mi sono trovata di fronte a una scelta clamorosa che mi
ha invogliato a saperne di più dell’occupazione.
Quando mio
fratello ha nominato quella parola, «occupazione», è stata la prima
volta che l’ho ascoltata. In Israele non la chiamano così, non parlano
di quello, parlano di una «guerra». È una delle grande bugie che
circolano in Israele. Non siamo in guerra, non si tratta di uno scontro
tra due eserciti, non combattiamo altri soldati. Si tratta di civili che
combattono contro gli occupanti.
Non sono uguali le due parti,
per niente. I miei insegnanti…mi ricordo il maestro di storia, era di
sinistra: nelle sue lezioni usava terminologie diverse dal solito,
parlava di occupazione, parlava della situazione a Gerusalemme est, le
difficili condizioni di vita dei palestinesi. A ovest è come vivere in
una città europea, alla fine; a est non c’è acqua, non c’è elettricità, è
come fosse un mondo alieno e diverso, è una vita completamente
differente. Hanno gli stessi obblighi però, pagano le tasse i
palestinesi, ma non gli stessi diritti: siamo di fronte a un vero e
proprio razzismo.
IN ISRAELE A UN CERTO PUNTO devi fare una specie
di training, di avvicinamento a tutto quanto è militare, a tutto quanto
è divisa, armi, esercito. Per me fu straziante oltre che sconvolgente;
in quella circostanza ho davvero capito che non sarei mai stato un
soldato. Percepii una sensazione tragica e allo stesso tempo ridicola, o
almeno è quello che pensai, perché a 17 anni avere a che fare con armi e
violenza mi pare assurdo. È all’interno di questa situazione straniante
che ho capito che quello non sarebbe stato il mio mondo, che non avrei
fatto il soldato e che avrei fatto l’attivista. Si tratta di una scelta
che condiziona tutta la vita, l’esercito fa di tutto per farti cambiare
idea. Tutti hanno molta paura di questa scelta. Perché tutta la tua vita
sociale e lavorativa futura ruota intorno a questa decisione. La mia
famiglia ha avuto momenti difficili. Ora è diverso, ma quando mio
fratello – che ha sei anni più di me – decise di rifiutare l’esercito,
non si trattava di una prassi molto comune.
I MIEI FURONO SORPRESI
e preoccupati, anche perché con questo tipo di scelta rischi di fare
una vita da outsider. Mio fratello poi ha vissuto anche un anno in
Italia, poi è tornato, fa attività politica ma non ha un lavoro, come
tanti altri che hanno fatto questa scelta. La nostra vita è da outsider,
si tratta di qualcosa di molto chiaro quando si compie questo strappo.
Della mia decisione ho parlato anche con mio nonno. Lui appartiene a un
mondo diverso dal mio. Quando aveva la mia età Israele non esisteva,
benché vivesse qui. Per lui combattere significava la sopravvivenza del
paese. Vive nell’ombra di un mondo che non c’è più.
PER LUI AVERE
UNA CASA, avere una «casa per gli ebrei», è estremamente importante. È
quello che pensano ancora molti in Israele: dobbiamo combattere per la
nostra casa altrimenti saremo quelli che verranno uccisi e bruciati. Fa
parte anche questo della propaganda; infine, mio nonno mi ha detto che
la mia scelta è stupida.
Dopo la scuola ho fatto il mio anno di
«servizio civile», una vera e propria preparazione a quello che poi
diventa il periodo militare (tre anni per i maschi, due per le donne,
ndr). Lo fanno tutti i teenager in Israele. E poi si suppone che le
persone con cui fai questo servizio siano i tuoi commilitoni quando
entrerai nell’esercito. Ma io avevo deciso che non avrei fatto il
soldato, neanche per essere utilizzato come «soldato morale», tipo
andare ai check point e sorridere. Il problema non è sorridere, il
problema è che ci sono i check point. La soluzione non è sorridere ai
check point, è non avere più check point. Ho studiato molto, non mi
interessava questa possibilità. Io non sarei mai stata un soldato.
RIFIUTAI
QUESTA OPZIONE, quella di andare insieme nell’esercito per essere poi
suddivisi in diverse unità. E così annunciai la mia diserzione. Per
Israele sono una traditrice, ho infranto una legge e sarò perseguita per
questo. Questa è la nostra democrazia, in Israele.
So che dovrò
affrontare, come altre ragazze della mia organizzazione, la Mesarvot,
processi e carcere. Ma sono convinta, so bene quali sono le conseguenze,
sono preparata. In quel periodo ho trovato la chiave della mia scelta:
l’ipotesi di essere un «moral soldier» mi ha convinto che la mia
moralità e la mia coscienza non bastano per salvarmi. La mia volontà è
fare qualcosa che possa influenzare tutta la società. Se fossi diventata
una soldato «morale», come dicono in Israele, avrei salvato la mia
coscienza. Non mi sarebbe mai bastato. Quanto ho deciso di fare
significa: rifiuto questo sistema crudele che alimenta l’occupazione e
la pessima vita che fanno oggi i palestinesi. Abbiamo un governo di
destra e l’esercito è uno strumento fondamentale dell’occupazione. Io
rifiuto di essere uno strumento di questa occupazione. È il cuore della
mia scelta.
ESSERE REFUSENIK significa parlare di occupazione. E
in Israele molte persone soffrono la propaganda continua che subiamo. In
Israele le persone sono preoccupate, sempre in apprensione per
l’esistenza dei mostri là fuori. C’è paura a prendere un autobus, per
timore che esploda. Si basa tutto sulla paura. E le persone diventano
cieche di fronte all’odio. Rifiutare il servizio militare significa
dire: ci sono persone dall’altra parte, persone che soffrono la nostra
occupazione. Noi facciamo della loro vita una prigione e queste cose
vanno dette. Nonostante le conseguenze, che conosco, che so e che ho
deciso di assumermi. So che avrò un processo, poi il carcere, è una
procedura consueta e talvolta più o meno lunga. Due ragazze della mia
organizzazione sono ancora in carcere, ad esempio. È una lotta tra chi
si ritira prima: noi o l’esercito. Si tratta di procedimenti stancanti e
umilianti, ma siamo convinte di quello che facciamo.
La mia
organizzazione è diversa da quelle del passato: usiamo i social network e
cerchiamo di spiegare la nostra scelta chiedendo a tutti, Europa
compresa, di aiutarci non solo invitandoci a raccontare le nostre
storie, ma chiedendo ai governi di non finanziare la corsa militaristica
di Israele. A proposito di Italia: il vostro paese fornisce
all’aviazione israeliana aerei militari e organizza esercitazioni
militari congiunte in Sardegna. Nel 2014, proprio nel corso dell’ultimo
attacco a Gaza, due aerei M-346 per l’addestramento al volo, di
produzione italiana, sono stati consegnati dall’Italia all’aviazione
israeliana. Noi rifiutiamo le armi, voi piantatela di venderle a Israele
e di partecipare all’occupazione dei territori palestinesi.