il manifesto 1.12.16
Il paradosso di Cacciari e le ragioni del Sì
di Carlo Spagnolo
Università di Bari
Conviene
ragionare del paradosso per cui le pecche della riforma costituzionale,
a Cacciari addirittura «fa schifo», non intaccano le ragioni del Sì. E
confrontarsi nel merito coi molti intellettuali, profondi conoscitori
della storia del paese, con lunga militanza a sinistra, schierati per la
riforma.
Tre sono gli argomenti a cui si possono, semplificando, ricondurre le loro tesi.
1)
NONOSTANTE I DIFETTI, la riforma va «nella direzione giusta», mette una
toppa ai pasticci della riforma al titolo V del 2001, e si affinerà in
corso d’opera.
Obietterrei con un’osservazione terra terra: c’è
una contraddizione tra un Senato delle autonomie e la sua elezione in
base alla popolazione. Stando alle stime, la Lombardia avrebbe 14
senatori, la Campania 9, il Piemonte e il Veneto 7, l’Emilia-Romagna 6,
il Lazio 7, dieci regioni solo 2 senatori ciascuna.
Col che si
creerebbe un blocco potenzialmente dominante di regioni popolose,
affiancato da quelle autonome e privilegiate, a scapito di quelle medie e
specie meridionali che conteranno poco e riceveranno meno. Un tale
sistema di rappresentanza farebbe delle autonomie una stampella delle
cordate di maggioranza alla Camera.
Per i fautori questo sarebbe
un vantaggio, una soluzione centralista agli eccessi del 2001. Ma se si
aggiunge l’ impossibilità di svolgere bene il doppio mandato di senatore
e consigliere, o sindaco, ne risulta un Senato al traino dei partiti
nazionali e delle aree dominanti.
Come si comporterà un simile
sistema istituzionale quando si tratterà di stabilire gli «interessi
nazionali»? Dove sono le garanzie di solidarietà tra le regioni forti e
quelle deboli?
La prospettiva, del resto già in atto, di un’Italia
a chiazze, con standard diversi nei diritti sociali, dovrebbe dare da
pensare soprattutto ai cittadini meridionali e agli abitanti dei
territori soggetti alle grandi opere.
Un’anticipazione è nella
riforma universitaria, che dal 2010 sta concentrando risorse in alcune
aree del centro-nord a spese del centro-sud, come documenta un
accuratissimo volume a cura di Gianfranco Viesti.
2) IL FASCINO
DEL SÌ sta in un dato psicologico, che si fa beffe di ogni argomento
giuridico. Il voto del Sì è contro il No, ovvero contro il proprio
passato, contro le delusioni generate dalla sinistra o dai precedenti
governi.
Si vota contro «l’accozzaglia», contro i D’Alema, i
Mussi, i Bersani, i professoroni, i magistrati, in qualche caso contro
Berlusconi, soprattutto contro gli ideologismi del proprio passato,
quasi per una liberatoria catarsi collettiva, finalmente esprimendo un
voto pragmatico a sostegno dell’azione riformatrice del governo.
Magari
hanno ragione questi neo-moderati a disdegnare le esagerate denunce di
degenerazione autoritaria, meno a rivendicare una lungimiranza
riformatrice.
Dopo una vita all’ opposizione, tanti elettori di
sinistra, molti i pensionati e i redditi fissi, hanno scelto il governo
contro la montante marea populista. Ma come dimenticare che la attuale
costituzione trova sostegno nei «populisti», mentre la nuova
costituzione riformata produrrebbe una lacerazione legittimata anche
dalla sinistra? Forse a una fetta larga dell’elettorato del Pd è mancata
una spiegazione dell’ascesa di Renzi nel cuore del centro-sinistra, per
cui lo hanno accolto come parte della propria storia. Dal 5 dicembre,
comunque vada, ci vorrà un’analisi concreta sui molti errori di una
sinistra autoreferenziale e sulle condizioni per non ricadervi.
3)
DOPO RENZI IL DILUVIO, ma se Draghi chiuderà l’ombrello la nuova
costituzione non ci proteggerebbe dal temporale. Il plebiscito serve a
una narrazione di rottura col passato, che cancelli la memoria di un
ventennio di continue invenzioni – il maggioritario di Segni, il
liberalismo di Berlusconi, la lotta contro la casta, l’abrogazione
dell’art. 18, ecc., che hanno aggirato i nodi del paese, aggravandoli.
La
riforma, nel promettere cose che non può mantenere, offre un nuovo
alibi ad un blocco sociale fondato principalmente sulla rendita e sui
bassi salari.
Il giudizio appare brutale e richiederebbe
sfumature, ma l’interrogativo se Renzi punti alla modernizzazione del
paese o a qualche misero maquillage non ha trovato risposte positive da
tre anni. Il dubbio è se Renzi rappresenti la politica che ci protegge
dal governo tecnico o la continuazione movimentista del
commissariamento.
Ai sostenitori del Sì va chiesto come possano
sopportare la responsabilità di una riforma che mira ad abbassare le
aspettative di una parte del paese e ne ridurrebbe la coesione.
Un’opposizione
di sinistra intelligente dovrebbe svelenire il clima plebiscitario e
dare sin d’ora la disponibilità a un governo politico di scopo in caso
di vittoria del No, anche a guida Renzi.
Una prospettiva di stabilità scongelerebbe gli incerti e toglierebbe l’alibi della mancanza di alternative.