il manifesto 15.12.16
La grande vittoria del No e la sconfitta della strategia «classista» di Renzi
Referendum
e questione sociale. C’è un passaggio chiave nelle scelte economiche di
Renzi: l’abolizione dell’Imu prima casa. In un paese che in meno di 10
anni ha perso il 25% della sua base produttiva, premiare la rendita
fondiaria non ha pagato
di Piero Bevilacqua
Il
grado di sofisticazione cui oggi è giunta l’analisi dei flussi
elettorali ci consente di cogliere aspetti importanti del voto
referendario.È stato a ragione segnalato il carattere «sociale» visibile
nella geografia del No lungo la Penisola: la periferia delle città
rispetto al loro centro, il Sud rispetto al Nord, i disoccupati rispetto
agli occupati, i giovani rispetto agli anziani.
Ma uno sguardo
alla cartografia del Sì non è meno interessante per la conferma di tale
lettura. Esso fa intravedere le nette fratture, non solo generalmente
sociali, ma di classe, che lacerano la società italiana. Le
disuguaglianze crescenti dell’ultimo decennio hanno creato nel Paese due
mondi separati: quello dei ceti che godono di reddito sufficiente e di
sicurezza e possono affrontare la riduzione del welfare e la politica di
austerità, e quello degli strati che indietreggiano verso la povertà o
nella povertà sono già precipitati. Quella cartografia ci mostra anche –
certo all’ingrosso – un profilo sociologico delle base di consenso di
cui godeva il governo Renzi e a cui lo stesso presidente del Consiglio
guardava per il proprio progetto di affermazione. È in parte anche la
base sociale di questo Pd, che rappresenta ormai prevalentemente gli
interessi della media borghesia cittadina, gruppi finanziari e
imprenditoriali, settori della stampa, del mondo intellettuale, parte
del quale crede di appartenere ancora a una gloriosa tradizione e non si
è accorto in quale nuovo continente è approdato.
La vittoria del
No è dunque anche l’espressione di un conflitto sociale contro una
strategia «classista» di governo che ormai mostrava nitidamente – al di
là degli elementi di modernizzazione pur presenti in alcune iniziative –
il suo carattere di progetto di «governo della crisi» fondato sul
consolidamento di un blocco di classe.
La linea economica di
questo esecutivo, l’abbiamo rilevato più volte, consisteva nel tentativo
di rilanciare l’economia italiana tramite un rilevante afflusso di
investimenti esteri attratti dai vantaggi offerti alla libera
valorizzazione dei capitali. Nulla di diverso dallo schema neocoloniale
perseguito dal ceto politico dell’Occidente negli ultimi anni. A tal
fine si è offerta, o si è cercato di offrire, nuova flessibilità del
lavoro (Jobs act), scuola subordinata ai bisogni del mercato del lavoro,
agevolazioni fiscali alle imprese, esecutivo libero da eccessivi
vincoli di procedure democratiche, ecc.
C’è un passaggio
rivelatore, nella politica economica del passato governo, che mostra
nitidamente la scelta di consolidamento di un blocco sociale contro le
ragioni stesse dell’economia produttiva e di un possibile rilancio della
domanda interna: l’esenzione dell’Imu dalla prima casa.
Com’è
possibile, in un Paese che in meno di 10 anni ha perso il 25% della sua
base produttiva, premiare a tal punto la rendita fondiaria, se non per
la ragione che Renzi voleva radicare il suo potere nei ceti abbienti
della società italiana?
Nel voto del No c’è dunque la sconfitta di
questa strategia, che non ha rilanciato l’economia italiana, non ha
scalfito la disoccupazione dilagante, non ha ridotto ma esasperato le
disuguaglianze, non ha contenuto ma moltiplicato la precarietà del
lavoro, non ha attenuato ma accresciuto l’emarginazione della gioventù,
non ha sollevato le sorti del Sud, ma ne ha spinto i ceti più deboli
nella disperazione sociale.
Forse mai come in questo voto referendario c’è stato tanto conflitto politico contro le classi dirigenti e il loro governo.
Ma
questa vittoria che oggi ci esalta, ci inquieta al tempo stesso.
Esistono tutte le condizioni perché la sinistra si metta in sintonia con
le grandi masse popolari del nostro Paese, con i ceti produttivi, con
le nuove generazioni, con le genti del Sud, con i gruppi intellettuali,
anche con quelli di area Pd, che devono prendere atto dell’inadeguatezza
della loro lettura della crisi e del capitalismo attuale.
Ma
dov’è la voce della sinistra? Sel ha compiuto il gesto generoso di
sciogliersi per favorire un nuovo processo di aggregazione e si
aspettavano le mosse e le iniziative di Sinistra Italiana. Quest’ultima
doveva celebrare il proprio congresso fondativo in questo dicembre e lo
ha spostato a febbraio. E nel frattempo? I gruppi dirigenti di SI, con
l’apporto anche di intellettuali d’area, stanno elaborando una
piattaforma programmatica che si mette alle spalle decenni di riformismo
neoliberista. Sul piano teorico e culturale si sta scrivendo una nuova
pagina progettuale. Ma è evidente in questo momento l’assenza di senso
del tempo, la capacità di seguire le scansioni della lotta in corso con
spirito d’iniziativa e creatività di manovra. È oggi, non domani, che è
necessario mostrare, ai mille gruppi dispersi della sinistra, ai
lavoratori, ai giovani, un punto di riferimento, un centro aggregatore
dotato di un serio progetto riformatore, all’altezza delle sfide che
l’Italia deve affrontare. Non sappiamo da tempo che, se il nuovo partito
nascerà a ridosso delle elezioni, verrà valutato dagli italiani come
l’ennesimo tentativo di un ceto politico marginale di ritagliarsi uno
spazio qualunque nella rappresentanza parlamentare?