il manifesto 15.12.16
Lo spauracchio di un altro tsunami
di Norma Rangeri
Se
quello sulla Costituzione ha provocato un terremoto, il referendum sul
jobs act potrebbe essere uno tsunami di proporzioni ancora più
imponenti, elettoralmente e socialmente.
Non è difficile
immaginare come voterebbero gli italiani sul tema del lavoro,
giustamente in cima alle preoccupazioni di tutti, giovani in prima fila,
saldamente in testa ai sondaggi sulle priorità del paese. Ed è la
ragione per cui questo voto molto probabilmente ci verrà sottratto.
Tutto
dipende da quanto durerà il governo, cioè quando Renzi deciderà di
staccare la spina a Gentiloni, perché in caso di elezioni anticipate il
referendum appunto salterebbe. E il più interessato a farlo naufragare è
proprio Renzi, davvero costretto a ritirarsi a vita privata nel caso di
un’altra batosta.
Ora il tema torna di attualità e in controluce
agita gli schieramenti politici. Come dimostra il botta e risposta a
distanza tra il ministro del lavoro Poletti, e la leader della Cgil
Susanna Camusso.
Il ministro è sicuro che «si andrà alle elezioni
prima del referendum». In replica Camusso ha esortato a «lasciar
lavorare la Corte provando a essere rispettosi e a non fare pressioni».
In soccorso di Poletti (che poi ha chiesto di non essere
strumentalizzato, così cadendo nella classica excusatio non petita
accusatio manifesta), ieri è arrivata anche Confindustria, guardia
scelta renziana, con il suo presidente Boccia a dare l’allarme generale,
paventando il rischio del blocco delle assunzioni in caso di referendum
sul jobs act. Senza nemmeno l’onestà intellettuale di riconoscere che
le assunzioni (senza più l’articolo 18) sono state il frutto dei
poderosi sgravi fiscali offerti da Renzi, e che, finiti quelli, subito i
posti di lavoro sono scesi in picchiata sostituiti da milioni di
voucher che inondavano il mercato del precariato.
Il panico per il
referendum sul jobs act ha un po’ ravvivato il clima depresso in cui si
stava svolgendo il rito del voto di fiducia al governo. Che si è
concluso come era iniziato. Con le aule parlamentari semivuote, gli
interventi recitati nel deserto dei banchi di camera e senato. E gli
addetti ai lavori attenti a leggere tra le righe del mesto dibattito,
per capire quando si andrà a votare, o, per riprendere le parole del
capogruppo del Pd, Zanda, quando arriverà al capolinea «il limitato
orizzonte elettorale del governo».
Si potrebbe anche dire che a decidere la data delle elezioni sarà il vincitore del prossimo congresso del Pd, quindi Renzi.
Ma
proprio sulla tabella di marcia che dovrebbe portarci alle prossime
elezioni va a sbattere un appuntamento che potrebbe chiamarci alle urne
in primavera, appunto il referendum chiesto dalla Cgil con la raccolta
di un milione di firme (anzi: tre milioni, uno per ogni quesito). Nel
caso di elezioni anticipate non potrebbe essere celebrato.
Naturalmente
si deve prima pronunciare la Corte costituzionale chiamata a rispondere
sull’ammissibilità dei quesiti, ma superata questa prova, si dovrebbe
procedere alla fissazione della data referendaria che può cadere in un
arco temporale che va da aprile a giugno.
Questo ingorgo
elettorale la storia della nostra Repubblica lo conosce bene. Altre
volte nel passato è successo che per far saltare i referendum gli
italiani fossero chiamati al voto anticipato.
E’ evidente che
nelle prossime settimane e mesi assisteremo a vari tentativi di
disinnescare la mina del referendum. Il più semplice e probabile sarà
appunto far cadere il governo-fotocopia entro giugno, giusto in tempo
utile per evitare un’altra poderosa onda antigovernativa. Oppure si
tenterà di escogitare qualche marchingegno legislativo per dire che del
referendum non c’è più bisogno.