il manifesto 13.12.16
Renzi, briglie strette su governo e Pd
di Norma Rangeri
Si
può anche avvolgere la dura realtà con i versi del poeta, come ha fatto
Renzi, leggendo alla direzione del Pd la poesia di Fernando Sabino che
invita a rimettersi in cammino dopo una sconfitta.
Si può anche
raccontare su facebook che sotto gli abiti dell’uomo di potere batte un
cuore di padre che fa ritorno a casa e rimbocca le coperte ai figli come
nei film. Ma non bastano a camuffare il passo indietro quando poi i
fatti, assai poco poetici e molto prosaici, dicono che Renzi ne ha fatti
due in avanti.
Non c’è niente di poetico nell’operazione, a metà
tra sottobosco e fanteria, di questo cambio di cavallo a palazzo Chigi,
avvenuto a tambur battente una settimana dopo la batosta del No al
referendum costituzionale. Come se niente fosse successo.
Abbiamo
capito che Renzi lascia momentaneamente il governo, giusto il tempo di
fare i conti nel Pd con un congresso che farà ballare il Ministero
Gentiloni, e indire nuove primarie-trampolino verso un bis a palazzo
Chigi.
Alla sinistra interna con Roberto Speranza che chiedeva se
chi ha votato No ha ancora cittadinanza nel partito, Renzi ha risposto
ricordandogli come il 40 per cento la sinistra non lo ha mai visto
«nemmeno col binocolo».
Un modo bullesco per mettere le
opposizioni davanti alla storia di un declino ventennale e all’attualità
di nessun leader alle viste che possa riunirle e condurle a un
competitivo scontro congressuale.
In questo clima da resa dei
conti, Paolo Gentiloni, il flemmatico attraversatore di molte stagioni e
famiglie politiche della sinistra, come lampo di fulmine ha battuto
tutti i record per la velocità di riciclaggio del pacchetto
ministeriale.
Tuttavia e a onor del vero, bisogna dire che non è
tutto merito suo: se la composizione del governo non è una perfetta
fotocopia di quello lasciato in eredità da Renzi è solo perché la vena
creativa del futuro gabinetto è finita nelle mani del nuovo, improbabile
capo delle feluche, Angelino Alfano, trasmigrato dagli interni agli
esteri. Più che una giovane promessa una collaudata minaccia per le
gaffes e gli incidenti diplomatici verso cui è irresistibilmente
attratto.
Il controllo del sottogoverno resta invece affidato ai due pretoriani del renzismo: Lotti e Boschi.
I
due fedelissimi comprimari del disastro referendario restano a guardia
del nuovo esecutivo, lui guadagna il ministero dello sport, lei un posto
di sottosegretario. E meno male che per rispetto di quella «dignità»
rivendicata a se stesso da Gentiloni nel discorso di rito
dell’accettazione dell’incarico, la delega per i servizi segreti viene
tenuta lontana dal “giglio magico” e assunta con l’interim dal
presidente del consiglio.
Poco commendevole è invece
l’attaccamento al governo dell’altra grande sconfitta del 4 dicembre,
l’ex ministra Boschi ora passata nel ruolo chiave di unica
sottosegretaria alla presidenza del consiglio, postazione decisiva per
la girandola delle nomine pubbliche. Né gli scandali bancari, né le
sconfitte elettorali le sembrano ragioni sufficienti a mollare la presa.
Ce
n’è a sufficienza perché il governo Gentiloni calzi come un guanto alla
mano che lo guida. La mano del segretario che ha azionato il timer
sotto la scrivania del presidente del consiglio, innescando il conto
alla rovescia verso la data di scadenza delle elezioni anticipate.
Seppure
non salutato dal fatidico “Enrico stai sereno”, tuttavia quel “buon
lavoro” inviato da Renzi a Gentiloni un po’ ne fa le veci. Nel suo
intervento a chiusura dell’aspro confronto politico nella direzione di
ieri, Renzi ha precisato che dopo le danze congressuali, in votazione
all’assemblea del partito di domenica, all’ordine del giorno «dei
prossimi mesi sappiamo che ci saranno le elezioni». Dunque un governo
con qualche mese appena di vita. E del resto anche il presidente del Pd,
Orfini, lo ha voluto seccamente ricordare a chi dovesse immaginare,
dentro e fuori il Pd, scenari diversi: «La legislatura è finita».
Eppure,
nonostante il controllo renziano su governo e partito, il terremoto del
4 dicembre ha aperto sotto i piedi del Pd profonde faglie sociali, più
forti della forsennata propaganda che tentava di esorcizzarle. Fratture
di classe di cui la sinistra, non solo in Italia, sembra non riconoscere
le traiettorie, né trovare la forza per intercettarne il linguaggio e
abbozzare qualche risposta credibile.
Così, alla fine, il
M5Stelle, con il trucco di semplificare questioni complesse (sfiorando
la Lega di Salvini su immigrazione e Unione europea), agitando la piazza
e usando la rete, ottiene ascolto e voti.