martedì 13 dicembre 2016

Corriere 13.12.16
Dieci rischi per Renzi
di Paolo Mieli

Mentre Paolo Gentiloni riceve l’incarico di formare un nuovo governo, il pensiero va al presidente colombiano Juan Manuel Santos che ai primi di ottobre è stato sconfitto nel referendum sull’intesa con le Forze armate rivoluzionarie del suo Paese, è rimasto al suo posto ed è stato persino insignito del Premio Nobel. Premio che ha ritirato a Oslo nelle stesse ore in cui Matteo Renzi lasciava Palazzo Chigi. Un’eccezione, quella di Santos, alla regola generale per cui, da Charles De Gaulle a David Cameron, tutti i capi di governo hanno sempre lasciato i loro incarichi dopo essere stati battuti in una consultazione referendaria (il premier inglese con la Brexit per 52 a 48). Cosa ha reso possibile l’anomalia di Santos? Il fatto che il presidente della Colombia, pur avendo perso, in seguito, per condizioni interne e internazionali da lui stesso predisposte, è stato in grado di riprendere in mano il proprio progetto, di sedersi nuovamente al tavolo delle trattative con le Farc, e di puntare a una rivincita nelle urne in tempi brevi.
Al nostro presidente del Consiglio uscente, a ogni evidenza, tutto ciò non sarebbe stato consentito.
D i riforma costituzionale da noi non si parlerà più per molti anni (checché ne dicessero esponenti del No i quali annunciavano progetti alternativi a tal punto semplici da poter essere approvati nel giro di pochi mesi, anche in questa legislatura). Ma con il tessuto di quella riforma era stato cucito, da lui stesso tra l’altro, l’abito d’ordinanza del Matteo Renzi capo di governo, così che adesso non avrebbe potuto passare inosservato se avesse aperto l’armadio per indossarne un altro a caso. Lui stesso ne è sempre stato consapevole ed è per questo che nell’ultimo anno aveva annunciato una trentina di volte che, nell’eventualità di una sconfitta, se ne sarebbe «tornato a casa» (cosa che ha fatto in tempi rapidissimi, è doveroso dargliene atto). In molte occasioni, però, si era sentito in dovere di aggiungere che, se avesse perso, avrebbe considerato «fallita» o «conclusa» la sua esperienza politica, che avrebbe addirittura «smesso di fare politica» dal momento che credeva «profondamente nel valore della dignità della cosa pubblica». Sicché avrebbe fatto «altro», sarebbe andato «via subito» e non lo si sarebbe «visto mai più». Ora che annuncia per il 10 gennaio il suo reingresso nella campagna precongressuale del Pd è bene che prepari delle risposte convincenti alla domanda sul perché di quelle «parole aggiunte». Ed è bene altresì che approfitti del mese che ci separa da quella scadenza per fare un’ulteriore riflessione sull’opportunità di correre a riprendersi il partito. Per una decina di ragioni.
La prima è che non sono state fatte analisi approfondite di quel che è veramente accaduto il 4 dicembre. Non è colpa di nessuno, non ce n’è stato il tempo. Ma se il 75% dei giovani ha votato No, è arduo pensare che ciò sia riconducibile — come Renzi ha confidato a Massimo Gramellini — esclusivamente al fatto che «il Pd è assente dal web» e che sia sufficiente «dedicare tutte le energie a ricostruire una comunità digitale». Servirà anche questo, ma sarà necessario anche altro. Molto altro.
La seconda è che da candidato alle primarie, Renzi perderà il profilo internazionale e accentuerà quello di personalità da confronto interno al partito. Già ci sarebbe da riflettere se abbia giovato alla battaglia referendaria quel modo di ricondurla ossessivamente alla conquista del consenso di Gianni Cuperlo, di Pierluigi Bersani o di chi per loro. Adesso ci sarebbe solo o soprattutto questo.
La terza ragione è strettamente connessa alla seconda. Renzi è reduce da un’indubbia sovraesposizione mediatica. Presentarsi nuovamente in tv a discutere prevalentemente con avversari del Pd per di più su una materia come la legge elettorale, potrebbe essere una scelta poco accorta. Ed esporlo a un effetto saturazione.
La quarta è che l’immediato ritorno nella mischia lo priverebbe di quei sia pur parziali riconoscimenti al suo triennio di governo che già affiorano in qualche commento alla sua uscita da Palazzo Chigi. Riconoscimenti, a parere di chi scrive, più che meritati. A un tempo sarebbe costretto per esigenze propagandistiche a diffondersi da sé sui propri «miracoli» (come già gli capita di fare). Il giudizio sul suo operato spetta agli altri, quello che lui dà di se stesso conta poco e potrebbe essere — per qualche eccesso di generosità — nocivo.
La quinta è che se, come sembra, le elezioni politiche non saranno convocate per questa primavera, ad aprile si terrà — lo ha già deciso la Cassazione — il referendum sul Jobs act e con lui in pista potrebbe riservare brutte sorprese. Anche perché quella prova referendaria sarebbe l’occasione d’oro per alcuni «pentiti del Sì» ansiosi di riverniciare la propria immagine. Quei «personaggetti» (la definizione è dell’ Unità in presumibile riferimento ai due Vincenzi, De Luca e D’Anna) che appaiono desiderosi di trasferirsi dal mondo degli sconfitti a quello dei vincitori. Se il nostro Paese introducesse lo sport del «calcio dell’asino», alle Olimpiadi saremmo in grado di conquistare medaglie d’oro, d’argento e di bronzo.
La sesta è che se non gli si opporranno nelle primarie personaggi di primo piano in grado di competere con lui e se la dovrà vedere con Michele Emiliano o altre personalità del genere, vorrà dire che il ventre doroteo del partito gli manda il seguente messaggio: «corri pure da solo, conquistati una facile vittoria nel Pd, vatti a schiantare per la seconda volta, così ti togli di mezzo per sempre». Che non è un bel viatico.
La settima è che con la separazione dei ruoli di segretario del Pd e di presidente del Consiglio, è possibile che — come accadde a Bettino Craxi quando nel ’92 restò alla conduzione del Psi lasciando a Giuliano Amato quella del governo — tutto ciò che di negativo accadrà di qui ai prossimi mesi nella vita politica del Paese, soprattutto le baruffe per la spartizione del potere, gli venga messo nel conto. Provocando difficoltà nei suoi rapporti con lo stesso Gentiloni.
L’ottava è che, se la legislatura dovesse protrarsi oltre il 15 settembre, conoscerebbe la beffa di essere percepito come l’«uomo del vitalizio» (altrui, per giunta). Renzi, come lui stesso non ha mancato di sottolineare, da domani non avrà più stipendio. Ma il suo partito così come quello di Silvio Berlusconi appare già adesso poco incline ad accelerare il ricorso anticipato alle urne. E lui, anche per non rompere con il capo dello Stato, potrebbe trovarsi nelle condizioni di dover assecondare lo scavallamento di quella fatidica data.
La nona è che in genere non è consigliabile dopo una sconfitta (anzi due, vanno ricordate anche le Comunali del giugno scorso) gettarsi di nuovo in un combattimento. Esistono anche problemi di tenuta fisica, se non per lui, per i suoi. Fu l’errore — quello di passare da uno scontro all’altro restando alla guida del partito — che fece Amintore Fanfani dopo il referendum sul divorzio (1974) e che pagò con la sconfitta alle elezioni amministrative del 1975.
La decima è relativa al discorso sui «suoi». Quando si affrontano partite così importanti sarebbe saggio affiancare ai collaboratori tradizionali altri che trovino il modo di dirti le verità amare, quelle che fino a oggi nessuno ti ha mai detto. Ed è difficile riuscire a trovare il tempo per farlo di qui a un mese prima che inizi la nuova battaglia.