Corriere La Lettura 4.12.16
Segreto svelato: Atlante è l’atlante
È
stato l’enigma meglio custodito dell’«Orlando furioso»: chi, o che
cosa, è il temibile negromante che tiene prigioniero Ruggiero in cima
ai Pirenei?
E qual è il titolo del libro che ha in mano? Gli
indizi convergono e mostrano la vera fisionomia del personaggio e la
visione del mondo del poema di Ariosto
di Franco Farinelli
Siamo
in grado di svelare il segreto meglio riposto (ma all’inizio di
Pulcinella) di tutto l’ Orlando furioso : chi, anzi che cosa sia
Atlante, il negromante che nel suo castello in cima ai Pirenei tiene
prigioniero Ruggiero e produce incanti, illusioni e giochi di specchi.
Una quarantina d’anni fa David Quint avanzò l’ipotesi che dietro tale
figura si celasse quella del Boiardo, dal cui Orlando innamorato
l’Ariosto trasse molto. Poeta dunque contro poeta. Italo Calvino arrivò
invece a pensare che Atlante fosse l’Ariosto stesso, che cioè egli
simboleggiasse per così dire la continua lotta dell’artista,
trasfiguratore della realtà, nel cavare il meglio dalla propria vena. In
realtà, come nella celebre novella di Poe sulla lettera rubata, non ci
si è fin qui accorti della vera identità di Atlante perché si è cercato
troppo lontano, senza avvedersi di quel che era invece subito a tiro:
Atlante è l’atlante, la raccolta di carte geografiche legate insieme.
«La stanza avara», come Ariosto definisce il castello del mago è insomma
nient’altro che una mappa, e la «finzïon d’incanto» che la costruzione
esercita è quella cartografica.
L’aspetto e l’azione
dell’incantatore sono descritti all’ottava diciassettesima del Canto
quarto: egli cavalca l’Ippogrifo, il cavallo alato, tenendo nella destra
un libro la cui lettura produce un’«alta meraviglia». Questa consiste
nel fatto che per un verso sembra che egli attacchi con l’arma, e
l’impressione è talmente vivida che, preparandosi a ricevere il colpo,
le vittime chiudono istintivamente gli occhi; in realtà egli è lontano, e
alla sensazione visiva non corrisponde nessun contatto fisico, nessun
«tocco». È il contenuto del libro a produrre l’effetto stupefacente per
cui il mondo «al falso più che al ver si rassomiglia» (II, 54), la
meraviglia «alta» nel doppio senso ideale e materiale, cioè di ordine
superiore e allo stesso tempo di fatto sopraelevata, perché chi subisce
l’assalto non cavalca in cielo ma sta a terra.
Ma di quale libro
si tratta? Qual è questo libro che «facea tutta la guerra» (IV, 25)? Si
tratta di un testo sul cui titolo, dunque sulla cui natura, stranamente,
i commentatori non si sono fin qui molto spesi. Ma la risposta non è
difficile, se si pone mente alle mosse di cui la guerra in questione
consiste.
La logica dello scontro tra Atlante e il resto del mondo
non si fonda soltanto sulla tecnica della falsa eliminazione della
distanza, sull’illusione che quel che è lontano sia invece vicino e
viceversa, ma anche sulla disparazione tra vista e tatto. Disparazione è
termine tecnico che si riferisce alla differenza tra l’immagine
percepita dell’occhio destro e quella dall’occhio sinistro, che il
cervello ricompone in un’unica visione unitaria. Qui invece disparazione
serve a definire lo scarto e la frattura tra quel che si vede e quel
che si tocca, il cui incrocio risulta, per i malcapitati assaliti da
Atlante, del tutto fuorviante: non soltanto la punta della lancia è
lontana e non vicina come pare, ma il contatto che di conseguenza vien
dato per imminente non si produce.
Si potrebbe obiettare che
comunque anche in tal modo la coincidenza tra l’impressione visiva e
quella tattile resta impregiudicata, perché ambedue risultano nel
medesimo tempo illusorie, ambedue producono lo stesso concomitante
ingannevole effetto. Ma così non è, perché si precisa (in II, 53) che
Atlante «quando all’uno accenna, all’altro mena», quando fa finta di
colpire uno percuote invece chi gli sta accanto: la vista cioè sembra
individuare un bersaglio ma il tatto è dolorosamente costretto a
smentirla e a registrarne un altro, diverso e anzi opposto.
Disparazione
dunque, e anche la più decisa. Così la domanda diventa: quando nasce la
diffrazione, il décalage , la differenza anzi l’opposizione tra il
tatto e la vista, quando e dove s’incrina per la prima volta la loro
concordanza? Al riguardo non vi sono dubbi: all’inizio del Quattrocento a
Firenze, sotto il portico dell’Ospedale degli Innocenti, concepito e
costruito dal Brunelleschi. La prima struttura architettonica realizzata
secondo il modello della prospettiva lineare moderna, vale a dire
secondo il codice spaziale.
È sotto tale portico che, con lo
spazio, nasce la modernità, perché per la prima volta il soggetto vien
chiamato a una decisione inconcepibile sia per l’antichità che per il
Medioevo: è costretto a scegliere se credere appunto al tatto — cioè
all’intero suo corpo, per il quale le linee che delimitano il pavimento
del portico stesso sono rette — oppure, al contrario, concedere fiducia
alla sua vista, per la quale le linee in questione appaiono al contrario
convergere all’infinito, verso il punto di fuga di fronte a sé, il
centro della finestrella dove fino al 1875 i trovatelli fiorentini
venivano deposti.
È questa, insomma, la disparazione originaria,
la scissione archetipica che fonda l’intera tattica di Atlante, e che
implica tra l’altro la fine della coerenza euclidea del mondo,
sovvertendone uno dei principali assunti.
Ma da dove deriva, a sua
volta, il modello brunelleschiano, qual è l’origine della moderna forma
di spazio? La risposta coincide appunto con il titolo del libro che
Atlante reca nella destra e che tanta forza conferisce alla sua azione:
la Geografia di Tolomeo, appunto un atlante e insieme un manuale
d’istruzioni per costruire mappe, che da tempo gli storici dell’arte
(Kim Veltman e Samuel Edgerton jr. per primi) hanno individuato come la
matrice dell’invenzione della prospettiva fiorentina.
Perciò
Atlante è davvero l’atlante, nel senso che quando intorno al 1570
Antonio Lafréri edita a Roma in volume le sue Tavole moderne di
geografia raccolte et messe secondo l’ordine di Tolomeo , la prima
collezione cartografica sul cui frontespizio appare la figura di Atlante
che regge il globo, evidentemente egli sa bene di agire proprio come il
negromante che imperversa nell’ Orlando furioso : costringe in un
magico, poderoso edificio tutte le forme del mondo, per preservarle
dalla vita che, come dicono i tedeschi, fa male alla vita. Proprio come
il mago dal cavallo alato aveva imprigionato nel suo castello Ruggiero
per preservarlo dalla sicura morte che egli avrebbe incontrato se avesse
continuato a duellare in giro per il mondo.
Se finora non ci
siamo accorti di quello che, a proposito della figura di Atlante, è
sempre stato sotto i nostri occhi è soltanto perché crediamo ancora alla
lezione di Max Weber, per la quale l’epoca moderna è l’epoca del
«disincanto del mondo», segna la fine della magia come tecnica di
salvezza. Ma dall’Ariosto si apprende invece che ogni epoca ha invece il
suo incanto, tanto tragico e maggiore quanto la tecnologia avanza: il
gran tema della polvere da sparo contro la cavalleria che compare nel
canto nono. Allora il problema era la prima forma con la quale l’insieme
dei processi che oggi chiamiamo globalizzazione iniziava a
manifestarsi.
Di qui il fascino dell’ Orlando , la cui furia
corrisponde allo stile parossistico del nuovo funzionamento del mondo,
nel bilico di un complesso di storie che riconosce allo spazio che
avanza (ad Atlante) la supremazia su ogni antica logica dei luoghi ma
che si conclude con la riaffermazione dell’ umanità del destino degli
esseri viventi. Per questo il Furioso resta ancora il viatico più utile
per inoltrarci sulla Terra che è la nostra, oggi che la globalizzazione
assume una seconda forma e spazza via quella spaziale che è stata la
prima: perché Ludovico Ariosto ci ha lasciato la prima e forse fin qui
unica guida per restare umani in un mondo finalmente diventato un unico
globo.