Corriere La Lettura 4.12.16
L’arte di adattarsi ai «barbari» fu l’arma segreta dei Bizantini
Mentre
le legioni di Roma imponevano il loro modo di combattere, gli eserciti
di Costantinopoli, che non fu mai militarista, cambiavano tattica a
seconda del nemico
di Giovanni Brizzi
Strutturato
secondo un impianto cronologico-narrativo, il volume di Gastone Breccia
Lo scudo di Cristo (Laterza) sulle guerre bizantine copre il periodo
compreso tra la disfatta subita da Valente ad Adrianopoli (378 d.C.) e
il fallito attacco del khan bulgaro Krum contro Costantinopoli (813); i
secoli, cioè, che videro l’Impero romano d’Oriente opporsi a successive
ondate di invasori sempre diversi, reprimere incursioni e razzie,
proteggere i confini e persino riconquistare territori da tempo perduti.
Gli aspetti chiave su cui l’autore insiste sono sia la situazione
politico-militare dell’Impero, sia la struttura, l’organizzazione e
l’impiego dei suoi eserciti. Due i momenti fondamentali: la creazione di
un nuovo sistema difensivo da parte di Teodosio I, dopo Adrianopoli, e
la grande «riforma tematica» della seconda metà del VII secolo. La prima
svolta interessò soltanto le forze armate; la seconda trasformò
completamente lo Stato.
Dal punto di vista strategico la Nuova
Roma poté giovarsi della posizione centrale della sua inespugnabile
capitale. Come si sarebbe poi visto, fino a che questa sopravviveva,
sopravviveva l’Impero… Da Costantinopoli, per linee interne, le forze
scelte di riserva potevano raggiungere in fretta, lungo buone strade, i
territori sotto attacco. Paradossalmente, però, quella centralità era
anche un elemento di debolezza, poiché la più splendida delle città
esercitava, nei confronti degli invasori, un’irresistibile attrazione;
sicché le forze imperiali potevano trovarsi a fronteggiare attacchi
simultanei dalle opposte frontiere, nel settore balcanico-danubiano e in
quello mesopotamico.
Tra gli elementi più interessanti emersi
dallo studio delle fonti figura la riflessione teorica sui vari aspetti
dell’arte bellica. Se non si può parlare di una manualistica strategica
in senso moderno, emerge però l’elaborazione di norme tattiche
flessibili: vengono codificati i diversi tipi di schieramento e manovra,
viene ribadito un principio che rappresenta una parziale rottura col
passato e, insieme, una valida alternativa, quello di «adattarsi al
nemico», analizzando i punti di forza e debolezza di ogni «barbaro» per
contrastarli o sfruttarli a proprio vantaggio. Le legioni della prima
Roma tendevano ad imporre il loro modo di combattere, confidando in una
superiorità che credevano assoluta; le armate d’Oriente, spesso
inferiori di numero, debbono invece di volta in volta adattarsi,
utilizzando formazioni differenti.
Dal punto di vista tattico i
secoli dal IV al IX vedono una trasformazione completa dell’arte
bellica. Dalle grandi armate di fanteria pesante dell’antica Roma si
passa a eserciti più snelli, compresi in genere tra i 15 e i 20 mila
effettivi. L’esercito di Costantinopoli resta però, nel suo momento
migliore, una forza basata, come quelle antiche, sull’impiego coordinato
di specialità diverse, che affianca fanti e cavalieri, «portatori di
scudo» pesantemente armati, adatti allo scontro frontale e alla difesa
di postazioni fisse, ai cavalleggeri unni, formidabili nella
ricognizione e nelle imboscate, e agli hippotoxotai , gli arcieri a
cavallo tratti soprattutto da Anatolia e Tracia, e dispone persino di
un’artiglieria da campo e di sistemi di segnalazione acustica e visiva.
Celebri restano le imprese di riconquista volute da Giustiniano, quella
africana contro i Vandali del 533, che (contro ogni aspettativa) si
risolse in una sorta di «guerra lampo»; e quella, ben più lunga e
difficile (535-553), contro i Goti in Italia.
Giustificate con
l’intento di ripristinare l’ orbis Romanus et christianus , le guerre
per la restauratio imperii dimostrarono la forza delle armate orientali.
Giustiniano sconfisse «gli unici popoli che, fino a quel momento, erano
riusciti a insediarsi nei territori romani», perché «gli eserciti e le
flotte coordinate da Costantinopoli avevano dato un’impressionante
dimostrazione di forza militare», ma non riuscì «a garantire ai suoi
sudditi il bene più prezioso, “la dolcezza della pace”».
Questo ci
porta ad un’ultima considerazione: benché sempre più militarizzato ,
l’impero non diventò mai militarista . Pur costretto a combattere guerre
incessanti, utilizzando fino al 95 per cento delle proprie risorse per
le spese belliche, lo Stato romano e cristiano non elaborò mai, a
sostegno di questo sforzo immane, un’ideologia positiva della guerra,
che rimase il peggiore dei mali, da evitare ad ogni costo, facendo
ricorso anche alla corruzione o al tradimento, all’assassinio mirato o
al pagamento di tributi… Solo eccezionalmente la guerra venne vista come
una «missione» dai connotati religiosi: Eraclio, quando l’Impero era
sull’orlo della catastrofe, fece appello anche alla fede per respingere
un nemico «alieno» al cristianesimo, ma solo perché era in gioco la
sopravvivenza della res publica . La guerra fu sempre, altrimenti, un
disvalore, che solo i popoli «barbari» affrontavano con gioia.
L’eccellente
saggio di Breccia raggiunge appieno entrambi gli scopi che si prefigge.
Destinato non solo agli specialisti (il linguaggio è di esemplare
chiarezza), è scritto per raggiungere (e raggiungerà, io spero…) un
vasto pubblico; e riesce a confutare la communis opinio secondo cui «la
Roma che non cadde» (Williams-Friell) avrebbe avuto in sé e nei suoi
ordinamenti militari i caratteri della «decadenza». La fine della prima
Roma si deve «all’emergere di un differente tipo di cultura e di vita»
(Gabba). Con tale modello Costantinopoli e l’Impero orientale, in fondo,
si identificavano; sicché sopravvissero...