Corriere 6.12.16
Bersani, no a voto e congresso anticipati «Servono regole, non altri referendum»
di Monica Guerzoni
ROMA
 Il Pd ha un anno di tempo per cambiare strada, «se invece andiamo 
avanti così, a rotta di collo, finiamo contro un muro». I ragionamenti 
che Pier Luigi Bersani ha condiviso con gli amici nella notte della 
festa e ieri, nella lunga giornata dedicata a riflettere sui dati, sono 
un mix di soddisfazione personale e preoccupazione per il Paese. 
Nell’animo dell’ex segretario c’è l’orgoglio di aver fiutato prima di 
altri il vento della «disaffezione e del distacco», mettendosi in 
sintonia col disagio degli italiani. E c’è la frustrazione di chi si è 
sentito bersaglio di critiche e sfottò, per aver detto di non voler 
regalare il No alle destre: «Se non ci fossimo stati noi, in quel campo,
 in che condizione sarebbe il Pd?».
Nel mirino dei renziani c’è 
lui, l’ex segretario. Ancor più di D’Alema, Bersani è accusato di aver 
lacerato il partito su una riforma che in Parlamento aveva più volte 
votato e di aver «giocato una battaglia non trasparente, consegnando il 
Paese a Grillo». Altro che ricucitura... Domani in direzione nazionale 
Renzi scandirà parole durissime, butterà sulle spalle della minoranza il
 peso della débacle e aprirà la resa dei conti: «Avete consegnato il 
Paese a Grillo».
D’Alema sarà già a Bruxelles, Bersani invece non 
esclude di parlare. Per rivendicare la scelta del No, per ammonire che 
la Costituzione non si può usare «per affermarsi, dividendo il Paese» e 
per chiedere al segretario di «voltare rapidamente pagina». Al leader, 
Bersani non farà sconti. Ma l’intervento che ha in mente, assicurano i 
suoi, sarà «un intervento di prospettiva». Due le parole chiave che gli 
frullano in testa. La prima è «stabilità», intesa come altolà a ogni 
tentazione di accelerare verso le elezioni politiche e verso il 
congresso del Pd. «Non è il momento di aprire una conta autoreferenziale
 — chiederà tempo Bersani — . Il congresso non si può fare domani, 
dobbiamo decidere le regole del gioco e non aprire un altro referendum 
su Renzi». Per dirla con Davide Zoggia «niente forzature, non si può 
fare un congresso sulle macerie».
La seconda parola chiave è 
«governabilità». E qui Bersani tornerà a chiedere di «mettere l’orecchio
 a terra» e ascoltare finalmente il malessere che cova nel profondo 
della società. Questa la «correzione di rotta» di cui l’ex segretario ha
 parlato ieri a pranzo con Roberto Speranza, una sterzata che prevede la
 revisione del Jobs act e della legge sulla Buona scuola. Quanto al 
prossimo inquilino di Palazzo Chigi, il nome più gettonato a sinistra è 
quello di Pietro Grasso, con Pier Carlo Padoan che resta ministro 
dell’Economia a garanzia dei conti.
Oggi pomeriggio Speranza 
marcherà i fondamentali in un incontro con i suoi parlamentari, 
convocato per studiare le contromosse al prevedibile attacco di Renzi: 
«Ci tratterà da traditori, ci accuserà di aver remato contro e invocherà
 la disciplina di partito...». E se i suoi gli chiederanno del possibile
 ticket con Enrico Letta — il quale da Parigi coltiva il silenzio, in 
attesa del momento giusto per tornare in campo — Speranza ha la risposta
 pronta: «Non parlo con Enrico da un sacco di tempo». Ma lo schema è 
quello del tandem, un candidato per il Pd e uno per Palazzo Chigi.
Chiunque
 sarà il prescelto per tentare la sorte contro Renzi, i tamburi del 
congresso rullano minacciosi. I renziani consigliano al leader di 
ripartire dal 40% del Sì. I bersaniani, specularmente, si sentono 
rafforzati dal 60% del No, eppure non chiederanno le dimissioni del 
segretario. «L’ex premier non può dare l’idea che, se perde, fugge con 
la palla», è la battuta preferita di Miguel Gotor. E Cecilia Guerra, 
senatrice ed ex viceministro, avverte: «Se Renzi cerca in noi il capro 
espiatorio, fa l’ennesimo errore. Occupiamoci piuttosto di aggiustare il
 tiro su fisco , welfare e alleanze».
 
