Corriere 6.12.16
Legge elettorale nodo da sciogliere
di Sabino Cassese
Oltre
19 milioni di italiani (quasi il 60 per cento dei votanti, ma solo il
37 per cento degli aventi diritto al voto) hanno accolto l’appello
proposto da 103 senatori e 166 deputati rimasti soccombenti (ma —
singolarità delle scelte renziane — anche da 151 senatori e 237 deputati
della maggioranza) contro la proposta di riforma costituzionale votata
dal 57 per cento dei parlamentari. Queste poche cifre fanno emergere il
disallineamento tra Paese e Parlamento, tra maggioranza parlamentare e
maggioranza referendaria, sul quale si è immediatamente inserito Grillo,
il maggiore azionista della composita compagine vincente, chiedendo di
andare al voto subito.
Ma questo è impossibile per due motivi. Il
primo è che le leggi elettorali esistenti per le due Camere sono tra di
loro molto diverse (proporzionale a doppio turno, con premio di
maggioranza, soglia di sbarramento e 100 collegi plurinominali, e
proporzionale con premio di maggioranza, soglia più alta e liste
bloccate, corretto dalla Corte costituzionale che ha abolito il premio
di maggioranza e introdotto le preferenze): se si votasse con esse il
blocco del nostro sistema politico sarebbe sicuro, perché una Camera
sarebbe all’opposizione dell’altra. Il secondo è che su ambedue le leggi
gravano gravi ipoteche. Sulla prima, quella di Calderoli, il giudizio
della Corte costituzionale. Sulla seconda il giudizio di molte forze
politiche spaventate dai risultati che il ballottaggio può produrre.
E
allora riemerge l’antica anima della democrazia italiana, attaccata sia
al bicameralismo sia alla formula elettorale proporzionale, cioè alle
scelte originarie della nostra Costituzione. È l’orientamento di chi
preferisce decidere insieme, piuttosto che contrapporsi, indebolire il
governo, piuttosto che contare sull’alternanza, rendere mite il potere
anche a costo di renderlo inefficace. È il punto di vista della
democrazia kelseniana, secondo cui «è di estrema importanza che tutti i
gruppi politici siano rappresentati in Parlamento in proporzione della
loro forza» e «maggioranza e minoranza devono potersi intendere
vicendevolmente», al quale si contrappone la democrazia schumpeteriana
per cui «il metodo democratico è lo strumento istituzionale per giungere
a decisioni politiche, in base al quale singoli individui ottengono il
potere di decidere attraverso la competizione che ha per oggetto il voto
popolare».
Se un popolo è anche la sua storia, nel passato di
quello italiano è iscritta una lunga serie di compromessi, di rinvii, di
adattamenti (per intenderci, quelli che sono all’origine del
persistente alto debito pubblico del nostro Paese), alla quale si
aggiunge oggi il desiderio di quasi tutte le forze politiche di contarsi
e di controllarsi reciprocamente in modo che nessuno vinca, ma anche
senza che qualcuno perda.
Se andassimo lungo questa strada, ci
ritroveremmo al punto di partenza, al 1946, Parlamento bicamerale e
sistema elettorale proporzionale e metteremmo la parola fine al lungo
ciclo che si aprì alla metà degli anni 70, quando si cominciò a pensare
che occorresse stabilizzare i governi e introdurre contropoteri in luogo
del consociativismo, abbandonando il complesso del tiranno. Più che una
Repubblica da riformare vi sarebbe una Repubblica da ritrovare nella
sua forma originaria.
Se andassimo su questa strada, occorrerebbe
almeno seguire il modello tedesco, che corregge la formula proporzionale
con una soglia di sbarramento e con la sfiducia costruttiva, in modo da
incentivare aggregazioni delle forze politiche e da evitare la
precarietà dei governi. Ma molte altre formule sono state proposte e
discusse, alcune anche sperimentate, in Italia, in quel grande cantiere
che sono i governi locali, regionali e comunali, che costituivano una
volta il campo nel quale collaudare formule e istituti da introdurre poi
al centro.
Non sarà facile giungere a una soluzione. Se avesse
vinto il Sì, ci sarebbe stato un vincitore. Il No ha troppi padri, tanto
diversi, per cui una legge elettorale che vada bene a uno non andrà
bene all’altro. Questo è uno dei paradossi della votazione appena
svolta: c’è una vittoria, ma non c’è un vincitore. L’altro è che la
Costituzione, che ha settant’anni, non si deve cambiare, mentre si deve
cambiare la legge elettorale che ha solo un anno, e non è stata neppure
ancora applicata.