sabato 3 dicembre 2016

Corriere 3.12.16
Le carte coperte (e i sospetti che crescono)
La partita difficile della legge elettorale per evitare uno stallo come nel 2013
Le incognite del dopo referendum: peserà anche il giudizio della Consulta sull’Italicum
di Francesco Verderami


Nel Palazzo tutti parlano del futuro, quasi nessuno ricorda invece il recente passato, la crisi costituzionale che nel 2013 paralizzò le istituzioni all’indomani del voto, con un Parlamento incapace di formare una maggioranza di governo e incapace persino di eleggere un capo dello Stato, mentre quello in scadenza — entrato nel semestre bianco — non poteva nemmeno sciogliere le Cameree indire nuove elezioni.
Le riforme e il referendum sono figlie di quella crisi, sono la «ragione sociale» di una legislatura sopravvissuta a se stessa proprio per ovviare al baco costituzionale che minava la Repubblica. Ma di questo problema non si è mai discusso in una lunga e volgare campagna elettorale, dove il fronte del Sì e il fronte del No hanno speso le loro energie per rappresentare l’avversario come l’emblema della «casta». E tra un comizio e l’altro hanno continuato a ragionare sul dopo, come se nulla fosse accaduto prima. Così Renzi ha dato il proprio imprinting alla nuova Carta, ipotecando il futuro in caso di vittoria e proponendo dei ritocchi a una legge elettorale che aveva imposto con voto di fiducia. Mentre dall’altra parte Berlusconi, che pure aveva condiviso la riforma in Parlamento fino al penultimo voto, ha preso d’un tratto a denunciare i rischi di una deriva autoritaria.
Appesi al verdetto delle urne, sugli scenari post referendari tutti tengono coperte le loro vere carte, e ciò alimenta reciproci sospetti. Nel fronte del No nessuno si fida — nemmeno i compagni della «ditta» — delle promesse fatte dal leader del Pd, che in caso di successo si è detto pronto a completare l’iter della legislatura senza strappi. Persino Gianni Letta, dopo molte titubanze, ha dato ragione infine al Cavaliere e si è convinto che «Renzi, se dovesse vincere, potrebbe non tener fede ai patti». I «patti» ovviamente riguardano la legge elettorale, che è l’alfa e l’omega per ogni forza politica, lo strumento da cui dipende la possibilità per Berlusconi di rientrare in gioco: magari non più per comandare, ma di sicuro per contare.
L’idea che il compromesso passi per la sconfitta altrui ha reso il referendum una sfida senza regole d’ingaggio, e ha complicato il lavoro del capo dello Stato. La vittoria del Sì avrebbe — fino a un certo punto — un percorso lineare, quella del No si porterebbe appresso molte più variabili e alcune incognite. A partire dalla scelta che farebbe Renzi. Perché un conto è mettere in preventivo le sue dimissioni, altra cosa è capire se — magari dopo un giro di consultazioni al Quirinale e un incarico esplorativo affidato al presidente di una Camera — il leader del Pd passerebbe comunque la mano o accetterebbe un nuovo incarico. Su questo tema anche ai fedelissimi Renzi ha opposto un muro di silenzio: «Vincesse il No saprei cosa fare. Ne ho parlato con mia moglie».
Vincesse il No dovrebbe parlarne anche con il capo dello Stato, sapendo che l’ipotesi di un governo tecnico — lo «spauracchio» con cui cerca di convincere gli elettori a votare Sì — si concretizzerebbe solo con il suo sostegno: dunque avrebbe una chiara paternità. E l’appoggio del Pd in Parlamento non permetterebbe al suo segretario di tenersi a distanza dalle scelte del nuovo esecutivo, chiamato l’anno prossimo a racimolare una ventina di miliardi per evitare che scattino le clausole di salvaguardia concordate con l’Europa. Di qui la scommessa che fanno i suoi avversari, e cioè che alla fine il capo dei democrat resterà a Palazzo Chigi. Ma è una scommessa che non tiene conto della personalità dell’ex sindaco di Firenze.
Così come sarebbe una scommessa riuscire a trovare un accordo sulla legge elettorale. Con la vittoria del No resterebbero due Camere con due diversi elettorati. Quale modello si adotterebbe? L’eventuale premio di maggioranza si assegnerebbe solo a un ramo del Parlamento o a entrambi? E se — visti i due diversi elettorati — dalle urne uscissero vincenti due forze o coalizioni diverse? Il Palazzo, dove si discute del dopo referendum, rischia di tornare allo stallo che precedette il referendum. In presenza di tre poli, il rebus avrebbe come unica soluzione il ritorno alla proporzionale, che non potrebbe però tenere conto di una variabile: la possibilità che le forze «antisistema» — per quanto non coalizzabili — superino insieme il 50% dei consensi.
Insomma, il Sì e il No sono due medaglie con il loro rovescio. Da lunedì toccherà ai partiti misurarsi con il verdetto popolare. E le scorciatoie sul sistema elettorale — vero oggetto della contesa — non appaiono praticabili. Sarebbe complicato anticipare la fine della legislatura. A meno che il Parlamento — incapace di mettersi d’accordo — non decida di affidarsi alla Consulta, pronta a «ritoccare» anche l’Italicum dopo il Porcellum. Ma una legge elettorale scritta dalla Corte costituzionale sancirebbe l’abdicazione di tutti i partiti della Seconda Repubblica. E a quel punto vincitori e vinti del referendum, accomunati nella sconfitta, sarebbero costretti a passar la mano .