Corriere 14.12.16
Le accuse a Boschi e il «rischio zavorra»
di Tommaso Labate
«Inutile
nascondersi dietro un dito. La Boschi è la nostra zavorra. E anche
Gentiloni ne è perfettamente consapevole». Ci sono cose che dieci giorni
fa sarebbero state impensabili. All’interno della maggioranza del Pd
persino il nominarla, Maria Elena Boschi, era considerato un azzardo.
L’ossessione del “giglio magico” per il controllo di consenso e
dissenso, i renziani scientificamente distribuiti per tutte le file
degli emicicli di Camera e Senato per controllare gli umori, il timore
che persino un sussurro potesse essere semplicemente riferito o, peggio,
riferito male. E invece ieri, a mo’ di rappresentazione plastica di un
potere che pare sbriciolato, o comunque percepito come tale, nella pausa
del dibattito sulla fiducia, due ministri e un drappello di peones si
lasciano andare a quella che — compulsando i sondaggi o guardando le
reazioni sulla Rete — appare come una verità persino edulcorata. «La
Boschi è la zavorra del governo Gentiloni». Così, secco, senza
eufemismi.
Dichiarazioni come questa rimangono (per ora) coperte
dalla garanzia dell’anonimato «soltanto per non nuocere al neopresidente
del Consiglio», dicono. Ma è una questione di tempo. Il tempo del
rodaggio e poi, dalle prossime settimane, chiunque vorrà colpire
dall’interno il nuovo esecutivo si unirà allo sport preferito di chi lo
sta attaccando da fuori. E cioè puntare il mirino contro Boschi.
Come
quei capitani che sopravvivono ai loro soldati dopo una disfatta in
guerra, Maria Elena Boschi paga sia le ferite dei compagni che la
sopravvivenza propria. «Non potevo essere l’unica a pagare. Non sarebbe
stato giusto. La mia carriera politica non è finita il 4 dicembre», ha
spiegato nelle ore successive al nuovo incarico a tutti quelli che le
chiedevano come mai non avesse passato la mano. A passare la mano, l’ex
ministro delle Riforme, oggi sottosegretario unico (ma non rimarrà
l’unica) alla presidenza del Consiglio, non ci ha mai pensato. Come non
ha mai pensato nemmeno all’ipotesi di seguire la scelta di Renzi, quella
di farsi da parte per un po’.
Del braccio di ferro che l’ha vista
praticamente opposta all’ex premier, quel tira e molla sulla riconferma
al governo che l’ultimo le ha garantito, emergono oggi — a cose fatte —
i dettagli più significativi. «Vieni con me a occuparti del partito», è
il primo suggerimento di Renzi dopo il voto referendario. «Io non
voglio lasciare il governo. Tu puoi permettertelo. Se lo lascio io, è la
mia fine», è la risposta. Naufraga pure la trovata renziana di
lanciarle la volata per la guida del gruppo alla Camera, col
franceschiniano Rosato da spostare al governo. Niente, Boschi rifiuta,
temendo il trappolone nel voto segreto dei colleghi. Alle 16.30 di ieri
l’altro, quando manca poco all’appuntamento di Gentiloni con Mattarella,
un posto per lei ancora non c’è. Verrà fuori — sottosegretario alla
presidenza del Consiglio con mansioni di verbalizzante — quasi per caso,
complici i veti sulla delega ai servizi per Luca Lotti, che finisce a
fare il ministro dello Sport. Luccica, e pure tanto. Ma non è oro.
Il
clima che si respira fuori dal Palazzo, se possibile, è persino peggio.
Sui social network si sprecano gli insulti. E i tantissimi «bugiarda» —
corredati dai video in cui Boschi prometteva l’addio alla politica in
caso di sconfitta al referendum — sono quasi la cosa meno sgradevole. I
big del partito che rispondevano direttamente a lei, a cominciare dal
tesoriere Francesco Bonifazi, hanno fatto una scelta che rischia di
rendere più evidente la sua. Si sono eclissati.