Corriere 14.12.16
Gli errori sulle banche
di Francesco Giavazzi
Non
aver capito quanto fosse urgente dare stabilità alle nostre banche è
stato forse il maggior limite del governo di Matteo Renzi. Quanti voti
ha perso, un anno fa, quando il Consiglio dei ministri approvò il
decreto — proposto da Bankitalia e ministero dell’Economia — per salvare
quattro banche del Centro Italia azzerando, oltre al valore delle
azioni, anche i titoli subordinati detenuti da oltre 10 mila piccoli
risparmiatori in molti casi raggirati da quelle banche?
È stata
singolare e ben poco lungimirante la scelta dei governi degli ultimi
anni di lasciare macerare i problemi delle nostre banche. Certo,
affrontarli significava stanziare cifre importanti che avrebbero fatto
lievitare il debito pubblico. Ma soprattutto avrebbe richiesto dare
risposte a quei risparmiatori che hanno creduto a ciò che per anni hanno
raccontato i banchieri. In alcuni casi avrebbe significato far venire
alla luce responsabilità che risalgono ai tempi, non poi così lontani,
in cui era la politica a gestire le banche.
La vicenda del Monte
dei Paschi di Siena è emblematica. Avrebbe anche significato spiegare
agli italiani perché, quando l’Unione Europea propose la direttiva sul
bail-in, governo, Parlamento, Consob, Banca d’Italia, tutti la
accettarono senza fiatare e soprattutto senza spiegare ai risparmiatori
che dal giorno dopo alcuni loro investimenti sarebbero stati meno
sicuri.
Il governo di Paolo Gentiloni rischia oggi di ripetere
quegli errori. Anche perché il ministro dell’Economia è il medesimo che
un anno fa propose quel decreto e che da quasi tre anni spera che vi
siano investitori internazionali disposti a mettere cinque miliardi di
euro nella banca senese. Non si sono trovati in tre anni: perché si
dovrebbero trovare in due settimane, entro il temine fissato dal braccio
della Bce responsabile per la vigilanza bancaria? Un termine deciso non
oggi, ma comunicato al governo e alle banche nel luglio scorso, sei
mesi fa.
Se esiste ancora una strada che eviti la
nazionalizzazione, questa probabilmente passa, come un anno fa,
attraverso una perdita rilevante per i piccoli risparmiatori che
detengono i titoli subordinati del Monte. Li avevano acquistati in 40
mila — sebbene da allora alcuni potrebbero averli venduti, quanti non si
sa — con un investimento medio di 50 mila euro ciascuno. La banca nega
che possano subire una perdita.
Sostiene che la proposta di
convertire questi titoli in azioni, non comporti alcuna perdita, anzi
potrebbe essere conveniente. Se la banca offre loro azioni al valore di
borsa attuale (circa 20 euro) essi, con poco più di 2 miliardi,
divengono proprietari del 48% circa della banca. Ciò significa valutare
il Monte 4,8 miliardi. Il patrimonio netto del Monte (dopo le
svalutazioni e la conversione) vale circa 9 miliardi, quindi essi
comprano azioni a 0,53 volte il valore degli attivi. Un buon affare?
Dipende:
le azioni di Ubi valgono di meno (0,3 volte il patrimonio netto),
quelle di Unicredit (dopo l’aumento di capitale varato ieri) più o meno
lo stesso, 0,6. Il problema è se il patrimonio netto del Monte valga
davvero 9 miliardi: se scoprissimo valesse di meno, magari perché ci
sono ancora sofferenze nascoste, per i piccoli azionisti la conversione
sarebbe un pessimo affare. Ancor peggio se la banca dovesse in futuro
emettere nuove azioni che diluirebbero il valore di quelle vecchie.
L’alternativa
è la nazionalizzazione previo rimborso dei piccoli risparmiatori. Se si
arrivasse a questo, e lo Stato divenisse l’unico azionista del Monte,
qualcuno dovrà spiegare quanto è costato rimandare così a lungo.
Possiamo sapere a quanto ammontano le parcelle finora pagate alle due
banche d’affari, Mediobanca e J.P. Morgan, incarica-te di trovare
azionisti privati e di garantire, tramite prestiti ponte, sufficiente
liquidità alla banca? Perché nel caso di una nazionalizzazione quelle
inutili parcelle le pagherebbero i contribuenti.
Se si arriverà ad
un intervento dello Stato è importante che questo non si limiti a
Siena. Bisogna evitare di continuare nella colpevole e cinica
sottovalutazione dei problemi di altre banche importanti che potrebbero
in un prossimo futuro trovarsi in difficoltà. È il caso delle popolari
venete, di Carige e non solo.
La cifra necessaria per dare
stabilità alle nostre banche è rilevante: alcuni analisti dicono 40
miliardi. E potrebbero non bastare se non si ferma l’emorragia di
prestiti non rimborsati. Un intervento di questo ammontare varrebbe
circa il 2,5% del Pil. In altri Paesi il costo è stato ben più elevato.
La crisi bancaria irlandese ha richiesto misure pari al 30% del Pil;
quella spagnola il 10%; le crisi delle banche scandinave negli anni
Novanta costarono il 9% del Pil in Finlandia, i 4% in Svezia. Ma questi
denari sono poi stati in gran parte recuperati quando lo Stato, dopo
aver stabilizzato le banche, le ha rivendute. Lo stesso è accaduto dieci
anni fa negli Stati Uniti.
Il nuovo governo deve evitare il
rischio di una tempesta perfetta: correntisti spaventati che abbandonano
le banche più deboli e investitori che voltano le spalle a un Paese
troppo indebitato. Ci si rende conto che il tempo sta per scadere?