Corriere 13.12.16
La fede nei numeri
Dietro l’equilibrio di Piero della Francesca c’è una religione matematica che unisce le cose e lo spirito
di Giulio Giorello
Guardatela
bene questa Madonna che occupa lo scomparto centrale del Polittico
della Misericordia, dal 6 dicembre in esposizione a Palazzo Marino di
Milano, ma abitualmente conservata alla Pinacoteca civica di
Sansepolcro. Sembra un’icona che chiude un’epoca; invece, essa inaugura
un nuovo modo di rappresentare. Piero della Francesca, originario di un
borgo nei pressi di Arezzo (1420-1492), si considerava anzitutto un
matematico, capace di utilizzare figure e numeri per rendere visivamente
la solenne armonia del divino personaggio. Si staglia sul fondo oro il
corpo della madre di Gesù, che offre a chi la contempla una perfetta
simmetria geometrica, degna di un appassionato lettore degli Elementi di
Euclide — anche se l’autore greco non sembra ricorrere alla simmetria
nello sviluppare le sue dimostrazioni!
Ma non è solo qui che
possiamo cogliere l’intreccio tra matematica e arte che si riscontra in
un personaggio eccezionale come Piero. Il quale è uno di quei «toscani»
che hanno creato «la dolce prospettiva», come amava chiamarla un altro
di loro, Paolo Uccello (1397-1475). In realtà, la creazione di questa
disciplina era attribuita a un architetto come Filippo Brunelleschi
(1377-1446) ed era diventata una delle tecniche preferite dagli artisti
più coraggiosamente innovatori.
L’idea, in breve, consisteva nel
considerare il piano ove va dipinta una qualche scena tridimensionale
come uno schermo di vetro, attraverso cui si poteva osservare quel che
deve essere raffigurato proprio come abitualmente possiamo osservarlo
attraverso una finestra di casa. Dall’occhio dell’artista, che va tenuto
fisso in una data posizione, si immaginava che uscissero raggi di luce
che raggiungevano ogni punto della scena.
Questo insieme di linee
rette era detto «proiezione»; e là dove ciascuna di esse intersecava lo
schermo di vetro si segnava un punto sullo schermo. Questo insieme di
punti, detto «sezione», creava sull’occhio la medesima impressione dello
scenario osservato dal pittore! Questo sistema «della proiezione e
della sezione» si doveva applicare a qualsiasi rappresentazione di
qualcosa di reale, o anche di semplicemente immaginato.
C’erano
delle regole. Se si supponeva che la tela fosse tenuta nella normale
posizione verticale, la perpendicolare che va dall’occhio alla tela
l’intersecava in un punto che sarebbe diventato noto come «punto di
fuga»; e la retta orizzontale che passava per il punto di fuga era la
linea d’orizzonte, in quanto, se lo spettatore guardava attraverso la
tela verso lo spazio aperto, tale retta corrispondeva all’orizzonte
reale. Il vincolo più importante era che tutte le linee orizzontali
nella scena che fossero perpendicolari al piano della tela dovessero
venire tracciate sulla tela medesima in modo da incontrarsi nel punto di
fuga. Non è così strano: ci basta pensare all’esempio delle rotaie
ferroviarie che apparentemente convergono in lontananza! Il punto di
fuga non era altro che il punto, inesistente nella realtà, verso cui
sembravano «fuggire» tutte le rette parallele della scena. Doveva poi
diventar noto, grazie all’apporto di matematici come Johannes Kepler
(1571-1630) e Girard Desargues (1591-1661), come «punto all’infinito».
Quanto
a Piero, nei suoi scritti, tra cui spicca il De prospectiva pingendi ,
non esitava ad affrontare anche problemi che non sembravano facilmente
applicabili alle tecniche pittoriche dell’epoca. Si sentiva, piuttosto,
uno che oggi chiameremmo un matematico applicato, persino maniacale nel
modo in cui presentava i suoi «teoremi» seguendo lo stile di Euclide.
Forse
più di ogni altro artista del Rinascimento, persino più del grande
Leonardo, doveva considerare questa scoperta matematica della realtà il
modo per costruire un’arte della pittura che andasse oltre al semplice
artigianato e diventasse una professione per autentici maestri. Non paia
scandaloso accostare a Piero una battuta di uno dei maggiori logici e
filosofi del Novecento, Bertrand Russell: il lavoro del matematico crea
via via «un cosmo ordinato dove il pensiero puro può abitare come nella
sua dimora naturale e noi possiamo sfuggire al tetro esilio del mondo
attuale».