Corriere 10.12.16
il doppio segnale da Palazzo Chigi
di Massimo Franco
La
teoria di candidati che ieri ha sfilato nello studio di Matteo Renzi a
Palazzo Chigi manda un segnale in due direzioni: all’interno del Pd e al
Quirinale. Al suo partito, il premier dimissionario comunica che il suo
passo indietro è stato compiuto solo in parte: resterà come segretario e
dal 18 dicembre comincerà la campagna congressuale. Dunque, qualunque
congiura allo stato nascente dovrà fare i conti con il suo gruppo di
potere, determinato a mantenere comunque il controllo sui dem e, in caso
di elezioni, sulle liste per Camera e Senato. Al capo dello Stato,
forse senza nemmeno volerlo, Renzi mostra che sta tenendo «consultazioni
parallele» a quelle ufficiali, perché le chiavi della crisi e della
maggioranza parlamentare le ha in mano lui.
Ricevere uno dopo
l’altro prima il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, poi quello
degli Esteri, Paolo Gentiloni, dato nelle ultime ore come possibile
successore di Renzi, rendendo noti i colloqui con un comunicato
ufficiale, significa additare a Sergio Mattarella la possibile
soluzione. E incontrarli a Palazzo Chigi e non nella sede del partito,
sottolinea la singolarità di un premier che dice di essere fuori ma non
rinuncia al ruolo di capo del governo. Anzi, vuole farlo pesare fino
all’ultimo per condizionare l’esito dello psicodramma apertosi con la
disfatta referendaria del 4 dicembre. La sensazione è che una strategia
tesa a sfruttare a proprio favore quel risultato miri a piegare entrambi
i destinatari.
Tra i dem la sensazione che Renzi li possa portare
a sbattere involontariamente è diffusa. E sta crescendo la
preoccupazione di trasformare il dialogo col presidente della Repubblica
in un confronto arrischiato. È come se Palazzo Chigi vedesse il
Quirinale e le sue prerogative non per quello che sono secondo la
Costituzione, ma come sarebbero state in caso di vittoria dei Sì al
referendum: e cioè un capo dello Stato espresso dalla maggioranza di
governo e incline ad assecondarne le indicazioni. Il fatto che
Mattarella sia figlio del maggiore successo renziano, un’elezione
quirinalizia che ricompattò il Pd, rafforza questa controversa
convinzione dell’esecutivo.
Quanto al partito, sottovoce magari si
parla di un segretario-premier che sta dissipando un patrimonio di voti
e di valori. Lo si accusa di avere «mistificato il significato del
referendum», e di non avere capito l’Italia. Si parla di un rischio
reale di «suicidarsi politicamente», e non solo nelle file della
minoranza. Eppure, nessuno appare in grado di trasformare il mugugno in
uno scontro aperto. Sulla nomenklatura, meno ormai sull’elettorato,
Renzi mantiene una presa a prova di rivolta. Il risultato è quello di
evocare una sorta di «sindrome dei lemming»: i piccoli roditori artici
che secondo la leggenda si suicidano in massa senza rendersene conto
durante le loro migrazioni.
L’obiettivo del segretario-premier
dimissionario, secondo gli esegeti più fedeli, rimane quello di
dimostrare che dopo di lui non ci sarà nulla di duraturo: al massimo una
compagine che ha il compito di approvare una riforma elettorale e
portare il Paese alle elezioni entro giugno al massimo, mantenendo un
controllo ferreo sulle nomine col sottosegretario Luca Lotti. Sulla
scadenza, assicura un esponente governativo, ci sarebbe una convergenza
di massima col Quirinale. La tesi è da verificare. Nel momento in cui
nasce un nuovo governo, sarà tale «senza aggettivi». E non potrà
limitarsi a archiviare l’Italicum. Dovrà anche sbloccare provvedimenti
sociali urgenti a favore dei terremotati e delle fasce più povere,
insabbiati da mesi in Parlamento per colpa del referendum.
Altrimenti
crescerebbe la rabbia antisistema. Anche perché la convinzione è che
sarà complicato arrivare rapidamente a una riforma elettorale condivisa:
a meno che una coalizione guidata dal Pd, magari da un Renzi tornato
clamorosamente sui propri passi, non opti di nuovo per norme fatte
passare ponendo la questione di fiducia. Ma procedere a strappi, con
altre forzature dopo il responso popolare del 4 dicembre, equivarrebbe a
non volere capire; e accelerare la marcia di avvicinamento al potere
del M5S e della Lega, sempre più in sintonia anche nella richiesta di
elezioni al più presto.
L’esito di questa crisi rimane dunque
aperto. E dopo una campagna referendaria avvelenata e dispendiosa, Renzi
si trova a un bivio: o riconoscere la responsabilità di quanto è
avvenuto, e rimanere premier indebolito; o indicare un candidato
alternativo, sapendo che potrà porre condizioni ma non dettarle al capo
dello Stato, e nemmeno a tutto il Pd e a tutto il Parlamento. L’odore
della Prima Repubblica si sta già diffondendo. Il paradosso è che a
spargerlo sia proprio il politico che doveva archiviare la Seconda e
entrare trionfalmente nella Terza, con una Costituzione a immagine e
somiglianza della nuova era.