Corriere 1.12.16
Riforme sbagliate lontane dall’Europa
di Giuseppe Gargani
Presidente del Comitato popolare per il No al referendum
Caro
direttore, le leggi costituzionali configurano un sistema di valori nei
quali si debbono riconoscere tutti: costituiscono un patto tra lo Stato
e i cittadini che ha un fondamento nella cultura e nella storia dei
diritti, e interpretano le nuove esigenze della società. Per modificare
una Costituzione occorre una grande spinta morale e culturale idonea ad
individuare cosa deve essere l’Italia di domani. Le «modifiche» alla
Costituzione, invece, non sono ispirate da nuovi valori, da un progetto
di un nuovo Stato e di una nuova società e quindi le nuove norme
scontano questo deficit; per questo è difficile spiegare, far
partecipare, coinvolgere i cittadini: tutto è legato a slogan
ripetitivi, retorici e ingannevoli. Spetta a chi propone le modifiche
spiegare e convincere non a chi si oppone. Da parte dei proponenti non
si è capaci di spiegare per la semplice ragione che non vi sono
spiegazioni se non quelle generiche racchiuse nelle frasi: bisogna
rinnovare, «gli italiani non possono restare nella palude»: si tratta di
frasi senza significato.
Le «modifiche» sono state prospettate
come un problema personale del Presidente del Consiglio e le norme sono
state approvate da una parte «minoritaria» dei membri del Parlamento
eletti nel 2013 e dichiarati «illegittimi» dalla Corte Costituzionale e
questo è un problema insuperabile. La domanda di fondo, al di là del
quesito referendario è se dobbiamo continuare ad avere una Repubblica
parlamentare o affidarci a norme scoordinate che non configurano né una
Repubblica parlamentare né una Repubblica presidenziale, una Repubblica
«incerta» che non può funzionare, un ibrido pericoloso per la
democrazia.
Con la «riforma» si avrebbe un governo «centralista»
che deprime la struttura democratica periferica degli enti locali, che
elimina le Province, parte importante della tradizione del nostro Paese,
punto di riferimento civile e organizzativo; che incrina il principio
della «sussidiarietà», il rapporto istituzionale più virtuoso con
l’Europa sognato nel dopo guerra; che limita il diritto dei cittadini
che non votano per il Senato e non possono per gran parte esprimere
«preferenze» per la Camera dei Deputati con liste decise fuori dai
meccanismi della democrazia; che opera una drastica riduzione dei poteri
regionali in contrasto anche rispetto alle scelte fatte dal Costituente
nel 1948, riducendole a Province amministrative. Con la riforma del
2001 furono attribuiti eccessivi poteri alle Regioni che vengono tolti
senza logica e senza certezza normativa.
Abbiamo combattuto tanti
anni il governo «accentratore» che era «lontano» dagli interessi dei
territori e che non consentiva una unità reale del paese. Ora dovremmo
tornare indietro! Il decentramento democratico nonostante le
inadeguatezze sempre evidenziate hanno consentito una partecipazione e
un protagonismo dei cittadini. Si dice che è necessario rafforzare il
ruolo del governo per decisioni più rapide, perché «siamo lenti nelle
decisioni». Si tratta di un problema reale. I costituenti nel 1948
credettero così tanto nel Parlamento che puntarono sul suo ruolo
primario fino a rendere più debole il governo, da tutti hanno fatto
proposte per rafforzare quei poteri.
Ora però si afferma che nelle
«modifiche» costituzionali «non c’è nemmeno un comma che aumenti i
poteri del premier che quindi restano deboli». Se è cosi, le «modifiche»
non rispondono a quella esigenza da tutti riconosciuta e che anche la
politica ha evidenziato, e allora a che serve la riforma?! Bisognava
rafforzare il governo con le necessarie garanzie dei cosiddetti pesi e
contrappesi per risolvere quel problema e non lo si è fatto. La verità, è
che con le attuali «modifiche» sono stati ridotti tutti gli altri
poteri e di conseguenza il Presidente del Consiglio riceve una
investitura popolare, sia pure fittizia, da una minoranza degli
elettori, configurando così un presidenzialismo anomalo senza un sistema
di garanzia.
Le modalità di elezione degli organi di garanzia
come la Corte Costituzionale, il Csm e il Presidente della Repubblica
sono determinate dalla maggioranza parlamentare di governo e in
particolare il capo dello Stato perde il ruolo di garanzia dell’unità
del Paese. Queste norme, non servono a curare le patologie di questa
società che ha bisogno di ben alti rimedi, e ci allontanano dall’Europa
che, come giustamente ha osservato Stefano Passigli, «chiede riforme con
riferimento a concrete politiche di governo e non alla pasticciata
composizione del nostro futuro Senato né alle sue competenze confuse».