Avvenire 4.12.16
Laicismo, l'anti-religione contraria alla laicità
di Fabrice Hadjadj
La
parola "laico" è un segno ostensibile nella lingua francese e anche in
quella italiana. È vero che l'udibile spicca meno del visibile; ecco
perché il suono della parola "laico" ci colpisce meno della visione di
un crocifisso. Tuttavia, a chi sa ascoltare quel suono, a chi sa
ricollocarlo nella sua prospettiva storica, si offre la visione di uno
strano spettacolo: alcune persone brandiscono un crocifisso garantendo
che si tratta invece di un martello – o del segno più dell'addizione; si
esprimono con il tono degno dei migliori predicatori e ci spiegano che è
per sottolineare una neutralità quando non una distanza dalle
religioni; ripetono infine senza sosta un versetto del vangelo ma sono
persuasi di intonare un ritornello del loro repertorio. Essi infatti
dicono e ridicono che bisogna «dare a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio
ciò che è di Dio», si fanno promotori di carte della laicità, senza
accorgersi che questa promozione è stata resa possibile dall'eredità
cristiana. Perché è in primo luogo la teologia cattolica che distingue
il laico dal chierico. Ed è sempre la teologia cattolica che pone quella
«separazione dei poteri» ben più fondamentale di quella di Montesquieu,
la separazione del potere temporale e del potere spirituale. A dire il
vero, anche la capacità di bestemmiare è ancora un segno ostensibile del
cristianesimo. Un pensiero di Pascal lo dice con chiarezza: «Vi è campo
aperto per la bestemmia, anche su verità quanto meno assai visibili».
Il vero teologo non può essere fondamentalista: egli sa che, se Dio è
trascendente, non fa parte delle evidenze mondane (la verità «erra
coperta da un velo» dice ancora Pascal, immagine molto interessante che
mostra il rifiuto dei sostenitori del burqa di una trascendenza
trascendente e dunque velata: nascondendo la donna, il velo integrale
pretende di esibire la verità islamica, affermarla come un'evidenza di
quaggiù). Allora, l'accesso a tale trascendenza non può avvenire
attraverso seduzioni o coercizioni: esso esige un movimento intimo del
cuore, che impegni liberamente la persona, un atto di fede. Ora, questa
esigenza stessa implica la pazienza davanti al rifiuto. Ecco perché il
campo della fede è «aperto alla bestemmia». Si può dirlo in un altro
modo prendendo il punto di vista del bestemmiatore. Che cosa c'è dietro
al piacere di bestemmiare? Da una parte ci vuole che l'idea di Dio sia
ancora abbastanza viva nella società. Se Dio – ahimè! – non c'è, che
divertimento ci sarebbe a coprirlo di ingiurie? Di questo si lamenta il
Marchese de Sade nella sua Storia di Juliette: «Il mio più grande dolore
è che in realtà non esiste un Dio, e quindi mi vedo privato del piacere
di insultarlo più positivamente». Ma per godere della bestemmia, non
occorre solamente che Dio esista, almeno nel pensiero, è anche
necessario non incappare subito nella pena di morte. Così, in una
società completamente atea la bestemmia è impossibile; nello stato
islamico è vietata. L'unica configurazione perfetta per il blasfemo è
quella di una società ancora cristiana. In una tale società, Dio è
ancora presente; ma, dato che il suo stesso Figlio fu condannato come
blasfemo dai grandi sacerdoti della sua epoca, si fa attenzione a non
condannare troppo rapidamente uno che bestemmia. Ecco il paradosso
implacabile con cui siamo confrontati noi francesi e noi europei:
affermare un «principio di separazione della società civile e della
società religiosa» nello stato presuppone ancora un legame privilegiato
con la fede cristiana (e alla fede cristiana aggiungo l'esistenza
ebraica che le è legata intimamente – la permanenza del popolo ebraico è
un principio di pluralità irriducibile all'interno del pensiero stesso
della Chiesa). O, per dirlo in altro modo, la neutralità dello stato a
riguardo delle confessioni religiose presuppone una predilezione per
l'eredità culturale giudaico-cristiana. Senza tale predilezione, o
quella neutralità diventa impotente, perché il neutro in sé non può
produrre una qualsiasi determinazione; o si trasforma in
neutralizzazione e diventa la religione dell'anti-religione, il
laicismo. Il laicismo è il contrario della laicità. La laicità non può
affermarsi che distinguendosi da un clero di cui riconosce l'esistenza.
Può essere anticlericale, nel senso di una diffidenza critica nei
confronti dei chierici, delle loro prediche e dei loro comportamenti,
come nel Decamerone di Boccaccio; ma non oserebbe escluderli dal
dibattito pubblico, perché, in questo caso, tradirebbe se stessa
costituendosi come un nuovo e supremo clero. Quanti sedicenti difensori
della laicità salgono in tribuna, più che in cattedra, per pronunciare
scomuniche e imporre un catechismo molto più rigido e riduttore del
dogma cattolico? Il laicista corrisponde molto precisamente al curato di
fantasia che vuole denunciare. Riprende il discorso preliminare
dell'enciclopedia, nel quale D'Alembert deplora l'«abuso dell'autorità
spirituale riunita a quella temporale» ma commette egli stesso
quell'abuso nel senso opposto.