il manifesto Alias 11.12.16
Un sangue sensibile alla cornice del senso
Credenze.
Possente e minuziosa, la ricerca dello storico della scienza Francesco
P. De Ceglia su «Il segreto di San Gennaro» (Einaudi) indaga i mutevoli
concetti elaborati per spiegare il fenomeno
di Francesco Benigno
Napoli,
4 maggio 1799. La cattedrale era gremitissima e la folla, che attendeva
spasmodica di vedere la miracolosa liquefazione del sangue raccolto in
un’ampolla rituale, appariva impaziente: il sangue non si scioglieva.
Pochi mesi prima, a gennaio, all’arrivo del generale Championnet e dei
suoi soldati, la liquefazione era avvenuta regolarmente, sia pure in
cerimonia privata, e da quel momento San Gennaro era stato accusato
pubblicamente di essersi fatto «giacobino». Ma ora la situazione era
cambiata: le truppe inglesi e l’armata dei lazzaroni sanfedisti del
cardinale Ruffo si stavano pericolosamente avvicinando a Napoli e i
francesi, temendo un’insurrezione, presidiavano i punti nevralgici della
città.
A voler credere a un testimone oculare, il diarista e
ufficiale Paul Thiébault, il Presidente del governo napoletano, posto di
fronte alla pericolosa impasse, avrebbe allora tentato una mossa
estrema: si sarebbe avvicinato all’Arcivescovo di Napoli e – facendogli
intravedere una pistola nascosta nel gilet – gli avrebbe sussurrato: «Se
il miracolo non si compie in fretta voi siete morto». Detto fatto, il
sangue si sciolse.
È solo uno tra i tanti episodi, favolosi e
stranianti, raccontati da Francesco Paolo De Ceglia in Il segreto di San
Gennaro Storia naturale di un miracolo napoletano (Einaudi, pp.
XVI-416,euro 32, 00) una ricerca possente e minuziosa, condotta con
garbo e grandi mezzi culturali, e soprattutto scritta benissimo, con uno
stile incisivo e per quanto possibile – data la complessità dei temi
trattati – chiaro. Perché sebbene il sottotitolo ammiccante reciti
«storia naturale», la sua più giusta definizione avrebbe dovuto essere
«storia intellettuale».
Il centro del libro non è costituito,
infatti, dalle pratiche di devozione e dalla dimensione sociale della
ritualità sacrale di una città sovrabbondante di «miracoli», bensì dai
mutevoli quadri concettuali volta a volta elaborati per «spiegare» il
fenomeno e, in sostanza, la cultura che lo ha identificato come tale. Un
percorso affascinante, intessuto di ragionamenti sui confini tra la
natura e la fede, tra la vita e la morte, tra ciò che può essere
conosciuto e quanto resterà assolutamente ignoto.
La storia ha
inizio il 17 agosto 1389 quando durante una processione delle reliquie
di San Gennaro, martirizzato agli inizi del IV secolo, si verificò per
la prima volta il fenomeno della liquefazione del suo sangue raccolto in
una ampolla. Non era un caso del tutto eccezionale, a quel tempo.
L’Europa pullulava di reliquie ematiche di vari santi nonché del sangue
di Gesù Cristo, e alle reliquie erano variamente connessi miracoli
disparati: a Bari, ad esempio, le ossa di San Nicola trasudavano manna.
Ciò che c’era di particolare nel «miracolo» di San Gennaro, era la sua
incostanza: normalmente solido e di colore bruno, il suo sangue talvolta
si scioglieva guadagnando un colore rosso brillante. Era insomma
instabile, incostante, mutevole in modo inquietante.
Cominciarono
allora due processi importanti, mirati entrambi a rendere il miracolo
gestibile e perciò a «regolarlo». Da una parte lo si inscrisse in un
cerimoniale in grado di esaltarne la fruibilità collettiva, magari
mitigandone la imprevedibilità; dall’altra lo si spiegò, in modo da
rendere conto, pur nel quadro di un fenomeno soprannaturale, della
ragione del periodico scioglimento. De Ceglia mette in luce molto bene
come questi due processi siano interrelati e, oltretutto, promossi dagli
stessi individui.
Ne viene, da un canto la fissazione di un
calendario cerimoniale che prevedeva una liquefazione periodica, a
giorni fissi; dall’altro la teoria secondo la quale il ribollire del
sangue sarebbe procurato dall’avvicinamento delle altre reliquie del
Santo, e segnatamente del capo, conservato in un ricco reliquario
antropomorfo. Il cambiamento di fase del sangue dipenderebbe così
dall’interazione tra le due reliquie. Il corpo del Martire, una volta
avvicinatesi due sue componenti fondamentali, il capo e il sangue,
riprenderebbe «a vivere»: «il sangue prezioso che si vede duro come un
sasso, tosto che scuopre il suo venerando capo si vede liquido e
spiumante come s’hallora uscito fuse dalle sacre vene: miracolo
veramente stupendissimo, ch’eccede ogni altro miracolo».
Naturalmente,
con la riforma, queste credenze subirono attacchi feroci da parte
protestante, attacchi che cercarono di naturalizzare il fenomeno facendo
leva sulla credenza, assai diffusa nei paesi nordici, della
«cruentazione»; e cioè la convinzione che i cadaveri di individui
deceduti di morte violenta siano in grado di reagire alla presenza dei
propri uccisori emettendo sostanze organiche. Si avanzò così l’ipotesi
che il cranio non fosse quello del Santo ma quello del suo carnefice.
Come mostra bene De Ceglia, qui il contrasto non è dunque tra la
superstizione meridionale cattolica e la razionalità settentrionale
protestante, ma tra due diversi «stili di credenza». Uno, quello
cattolico, orientato al soprannaturale, l’altro, quello protestante, più
propenso alla dimensione magico-naturalistica.
Diverso ancora il
panorama intellettuale settecentesco, dominato dalla logica
dell’esperimento e dall’idea di replicare il fenomeno mediante pozioni
di derivati di ferro e altre sostanze capaci di reagire, sciogliendosi,
al calore o allo scuotimento. Ancora una volta, però, questa diversa
dimensione, diciamo così sperimentale, non contrappone un nord
scientista a un sud oscurantista, se è vero che a un Caspar Neumann,
capace di intrattenere la corte di Berlino nel 1734 con un esperimento
volto a svelare il «trucco» del sangue di San Gennaro, faceva eco a
Napoli la costruzione, da parte del principe «illuminato» Raimondo di
Sangro, di una macchina capace di riprodurre la liquefazione del sangue.
Le
diatribe sono continuate fino a oggi e hanno coinvolto spiritisti e
socialisti, gesuiti e massoni, maghi e sacerdoti, antropologi e
mangiapreti, chimici e scienziati di diverso orientamento: la Chiesa
infatti, pur proteggendo il culto, non ha mai dichiarato il fenomeno
come miracoloso, sicché la fedeltà al cattolicesimo non ha implicato, di
necessità, la credenza nella liquefazione miracolosa. Se un giorno
tutto questo finirà, scrive saggiamente De Ceglia, non sarà perché
qualcuno svelerà il «trucco» di San Gennaro ma perché cambierà la
sensibilità verso queste forme di devozione.
Giusto, ma resta un
rimpianto. Se nella sua fantastica traversata dei secoli De Ceglia
avesse applicato lo stesso criterio, avremmo avuto una storia anche
«sociale» e non solo intellettuale del «miracolo» di san Gennaro. E
questa ci avrebbe fatto meglio capire, accanto agli aspetti della
religiosità napoletana, dagli ex voto alle preghiere di intercessione,
anche vicende che restano un po’ all’ombra di questo saggio: per
esempio, il tentativo da parte popolare di appropriarsi della
processione, il sostegno assicurato dai Gesuiti al suo culto, la
protezione miracolosa accordata dal Santo alla città in occasione
dell’eruzione del 1631, la competizione con gli altri Santi patroni di
Napoli e quella, tutta politica, con Sant’Antonio di Padova. Durante la
Restaurazione, infatti San Gennaro subì una sorta di ostracismo e pare
che gli imbrattatele della rua catalana esponessero un quadro in cui
Sant’Antonio armato di verghe sferzava san Gennaro che scappava.
L’ostracismo sarebbe finito solo con l’arrivo solitario di Garibaldi in
città nel 1860: e davanti all’Eroe dei due mondi, come (quasi) sempre,
San Gennaro «fece» il miracolo.