venerdì 25 novembre 2016

Venerdì 25 Novembre, 2016
«Shalabayeva fu sequestrata» I poliziotti verso il processo
Tra gli inquisiti dai pm di Perugia il questore di Rimini e il capo dello Sco
di Giovanni Bianconi

Per i pm di Perugia sette poliziotti (tra cui il capo dello Sco), un giudice di pace e tre diplomatici kazaki sono colpevoli del sequestro di Alma Shalabayeva, moglie del dissidente Ablyazov, e della figlia.
ROMA Indagine finita e accuse confermate: secondo la Procura di Perugia sette poliziotti, un giudice di pace e tre diplomatici del Kazakistan hanno organizzato e realizzato il duplice sequestro di persona di Alma Shalabayeva e Alua Ab-lyazova, moglie e figlia del dissidente Mukhtar Ablyazov, espulse dall’Italia con un ordine successivamente annullato dalla Corte di Cassazione. L’avviso di chiusura dell’inchiesta che prelude alla richiesta di rinvio a giudizio è stato notificato, fra gli altri, all’ex capo della Squadra mobile di Roma (oggi direttore del Servizio centrale operativo) Renato Cortese e all’ex responsabile dell’ufficio immigrazione (oggi questore di Rimini) Maurizio Improta. L’imputazione più grave è accompagnata da altri reati come falsi in atto pubblico, omissioni e abusi d’ufficio.
La vicenda risale al maggio 2013 quando la polizia fece irruzione in una villa della periferia di Roma, su indicazione dell’ambasciata kazaka, per arrestare il «ricercato internazionale» Ablyazov. Lui non c’era, gli investigatori trovarono solo la moglie e la figlia di 6 anni, che al termine di un velocissimo iter giuridico-amministrativo furono caricate su un aereo privato messo a disposizione dalle stesse autorità di Astana. Dopo la denuncia dei legali della donna, il ministro dell’Interno Angelino Alfano fu costretto a presentarsi in Parlamento per difendersi dalla contestazione di aver coperto la «consegna» della moglie del dissidente ai kazaki.
Il «caso» provocò le dimissioni dell’allora capo di gabinetto del Viminale, prefetto Giuseppe Procaccini, e il pensionamento anticipato del capo della segreteria del Dipartimento della Pubblica sicurezza, Sandro Valeri. Erano stati loro a parlare con i kazaki e a mandarli in questura per organizzare l’operazione. Tuttavia nella ricostruzione degli inquirenti il loro ruolo sembra sfumato fino a scomparire. L’accusa di sequestro riguarda infatti l’ex ambasciatore Andrian Yelemessov e due funzionari (che godono dell’immunità diplomatica, dunque non sono processabili), i quali avrebbero evidentemente agito prima come mandanti e poi come partecipi; per quanto riguarda gli italiani, la catena politico-ministeriale è rimasta fuori, e le responsabilità vengono attribuite dal capo della Squadra mobile in giù. Come se avessero agito su diretto input dei rappresentanti stranieri, senza alcun coinvolgimento dei loro superiori.
Ipotesi singolare, che emerge dall’atto conclusivo di un’indagine durata due anni e che se avesse coinvolto i vertici del Viminale sarebbe probabilmente approdata al tribunale dei ministri di Roma. La competenza della Procura di Perugia resta così ancorata alla presenza tra gli indagati del giudice di pace Stefania Lavore, che all’udienza del 31 maggio 2013 — secondo il capo d’accusa — non ascoltò né verbalizzò le richieste di asilo politico avanzate dalla Shalabayeva, che utilizzava un documento intestato a un nome falso «per motivi di sicurezza».
All’epoca i funzionari di polizia sostennero (e fecero riferire al ministro in Parlamento) di non avere mai avuto notizia delle implicazioni politiche di quanto stavano facendo, a partire dallo status di rifugiato di Ablyazov concesso dalla Gran Bretagna nel 2011 e dalle conseguenti istanze di protezione della Shalabayeva. I pm ritengono invece di aver raggiunto la prova del contrario: i poliziotti della Mobile sono accusati di avere «tratto in inganno» prima i colleghi dell’Ufficio immigrazione e poi i magistrati della Procura di Roma che diedero il nulla osta per l’espulsione della donna e della bambina; dopodiché i funzionari dell’Immigrazione avrebbero persino falsificato dei documenti per accelerare la partenza della Shalabayeva, che — secondo la sua testimonianza — continuò a chiedere asilo politico fin sotto la scaletta dell’aereo. Le avrebbero risposto che non si poteva, perché «tutto era stato deciso a livello politico». Ora gli inquisiti potranno vedere le carte raccolte dall’accusa e preparare le loro difese.