venerdì 25 novembre 2016

Repubblica 25.11.16
“Shalabayeva fu rapita” verso il processo i due superpoliziotti
Perugia, chiusa l’indagine per sequestro di persona
Sotto accusa il capo dello Sco e il questore di Rimini
di Carlo Bonini

LA Procura di Perugia chiude l’inchiesta sul caso di Alma Shalabayeva e della piccola Alua Ablyazova, la moglie e la figlia del dissidente kazakho Mukhtar Ablyazov, arrestate illegittimamente e altrettanto illegittimamente espulse dall’Italia al Kazakhstan nel maggio del 2013 in violazione del diritto di asilo, consegnando la Polizia italiana e un giudice di pace di Roma a un’accusa gravissima. Sequestro di persona.
Con un avviso di conclusione indagine di 22 pagine, il Procuratore di Perugia Luigi De Ficchy e i sostituti Antonella Duchini e Massimo Casucci, travolgono e annunciano di fatto il processo a due dirigenti di vertice della Polizia di Stato — Renato Cortese, attuale direttore del Servizio Centrale Operativo e all’epoca dei fatti capo della squadra mobile di Roma, e Maurizio Improta, già capo dell’Ufficio Immigrazione e oggi questore di Rimini — accusandoli di una “extraordinary rendition” dissimulata da regolare procedimento di espulsione grazie ad una ininterrotta sequenza di falsi, abusi, omissioni, con la complicità di altri 9 indagati: il giudice di pace Stefania Lavore che avallò la consegna al Kazakhstan, tre diplomatici dell’ambasciata kazaka a Roma (l’allora ambasciatore Andrian Yelemessov, il primo segretario Nurlan Khassen e l’addetto agli affari consolari Yerzhan Yessirkepov) e cinque funzionari di polizia già in servizio alla Mobile di Roma e all’Ufficio immigrazione.
Della Shalabayeva e di sua figlia Alua — scrivono i pm — vennero «violati i diritti umani». Quelli che riconoscono l’intangibilità del diritto di asilo e fissano il divieto di estradare cittadini politicamente perseguitati nei paesi di origine. E lo furono, appunto, con modalità «abusive», come quelle di tacere la vera identità della donna (che la Polizia italiana conosceva prima ancora del fermo) e la sua reiterata richiesta di asilo dopo l’arresto. E tuttavia, nei venti capi di imputazione che vengono contestati agli undici indagati nell’atto di chiusura indagini, le domande cruciali rimangono senza risposta.
Perché tutto questo fu possibile? Perché un capo della Squadra Mobile, il Capo dell’Ufficio immigrazione, un giudice di Pace, si prestarono ad un abuso di questa portata nei confronti di una donna di cui ignoravano la storia?
Detta altrimenti. Quale fu il movente che li mosse? Di più: con quale autorità tre diplomatici kazaki avrebbero potuto disporre della Polizia italiana neanche fosse la gendarmeria di Astana, se non in forza di una legittimazione ricevuta durante un ripetuto bivacco nell’anticamera del ministro dell’Interno Angelino Alfano?
Per rispondere, l’indagine di Perugia avrebbe dovuto risalire la catena delle responsabilità. Dalla Questura e dall’Ufficio Immigrati di Roma al Dipartimento della Pubblica sicurezza (in quel momento diretto dal capo della polizia facente funzione Alessandro Marangoni, oggi prefetto di Milano), alla sua segreteria (Alessandro Valeri), all’allora capo di gabinetto del ministro dell’Interno (Giuseppe Procaccini), allo stesso ministro Angelino Alfano, da cui partì il “la” all’operazione abusiva del fermo e dell’espulsione della Shalabayeva, tanto da giustificarne la frenesia, in una sistematica violazione dei diritti.
Un passaggio, questo, che l’inchiesta non compie. Lasciando che volino gli stracci e che questa storia possa chiudersi così come era cominciata quando in Parlamento, nell’estate del 2013, Angelino Alfano venne salvato da Enrico Letta grazie alla forza di ricatto politica che aveva sul Governo. Che si chiuda cioè sganciando i vagoni di coda. Sacrificando il destino e la reputazione di chi — come pure si legge nello stesso atto di chiusura indagini — eseguì un ordine «deciso dall’alto». Riscrivendo insomma l’intera storia e, con una riduzione del danno, accreditando il vertice politico e tecnico del Viminale come “vittime” di dirigenti di Polizia fulminati da eccesso di zelo.