La Stampa 25.11.16
“Ci chiamano scimmie, ci minacciano. Allah ci guiderà nella vendetta”
Viaggio nell’ex villaggio olimpico diventato una polveriera sociale
di Lodovico Poletto
«Ci
insultavano: venite giù scimmie. Venite giù negri bastardi. E poi ci
sono stati gli scoppi e noi abbiamo pensato che stavamo per morire tra
le fiamme e le bombe. Ma qualcuno è sceso lo stesso. E quelli hanno
continuato ad insultarci».
Undici ore dopo l’aggressione al Moi,
dopo le bombe lanciate contro l’ingresso delle palazzine colonizzate da
quasi mille e 500 migranti, molti dei quali clandestini, in questo
scampolo di città dove tutto è possibile, lecito e pure tollerato, la
rabbia ha le parole di questo ragazzo del Camerun bagnato fradicio:
«Siamo nulla per questa città. Siamo nel mirino di gente che non capisce
che anche noi siamo ragazzi e vorremmo una vita decente». Lo dice
gridando. E la rabbia s’allarga, contagia anche chi, fino ad ora, aveva
solo ascoltato i racconti e le proteste.
Su, al primo piano,
invece, c’è ancora chi dorme. Hanno passato la notte in strada e adesso
se ne stanno lì, sette, otto anche dieci per stanza, distesi su
materassi recuperati chissà dove. Separé di compensato, coperte fin
sotto gli occhi, puzza di scarpe, di bagnato, di chiuso. Ma almeno qui
c’è la luce. «Sono del Ghana, io ieri sono sceso. Avevo paura, ma sono
andato in strada» racconta. Hai il permesso di soggiorno? «Ho i
documenti». In regola? «Sì, ma me li hanno presi». Un’altra stanza. C’è
più luce e una tv accesa su un canale arabo. Un letto, un’infilata di
pentole e due ragazzi che non parlano con nessuno. Scale buie. Si sale
ancora di un piano: scalini sporchi, incrostati da anni di pulizie mai
fatte. Ragazzi che salgono e scendono. Quelli dell’immigrazione della
Questura hanno parlato con molti di loro, per farsi un’idea di chi c’è
lì dentro. Gli hanno raccomandato di non uscire: «Non accettate
provocazioni». Ma vallo a spiegare a questi ragazzoni ventenni o poco
più. E in questa mattina di pioggia e di sirene, di divise, di curiosi e
di gente del quartiere infuriata, le palazzine arancione, rosa, blu,
verde e grigia, sono in fermento. Non ha aperto nemmeno il chiosco dei
panini - abusivo - che un profugo s’è inventato qualche settimana fa. E
non c’è neppure il banco di scarpe usate, che di solito è sul retro
della palazzina arancione, nel cortile. Funzionano solo i negozi:
sgabuzzini grossi un pugno, senza autorizzazioni partite Iva o
contabilità registrata. Vendono bibite, patatine, saponi, shampoo,
scatolette, dolci. «Mi dai del cioccolato per favore?» E la tavoletta di
Lindt al latte passa di mano: «Un euro». Come fanno a guadagnare?
Nessuno vuole o sa spiegartelo. Neanche il ragazzo che gestisce questo
stranissimo spaccio al blocco blu.
Ecco, questo è il Moi: una
comunità dove entri solo se ci fai parte. Una comunità staccata dalla
città. Abbandonata a se stessa ma anche impermeabile alle sollecitazioni
di fuori. Chi arriva qui ci resta per anni. E forse uno degli esempi
migliori è Abu, 32 anni, originario del Ghana. Una manciata di parole in
Italiano e frasi che mescolano francese e inglese. Ma qui è una specie
di guru e fa il barbiere. Ripete: «In Africa avremmo avuto una
possibilità di guadagnare qualcosa. Qui, invece, fuori dal Moi non c’è
nulla per noi». E allora sta qui da tre anni. Taglia i capelli ai
profughi per qualche euro. Non te lo aspetti, ma indossa la camicia
bianca come i barbieri del centro, e sulla consolle ha lacche e shampoo e
tutto quel che serve per un servizio da professionista.
Chi non
ha inventiva va giù nei magazzini a smontare elettrodomestici trovati
per strada e poi va a rivendere il ferro il rame e l’alluminio in
fonderia. Ma c’è anche chi va a spacciare, certo. E chi ha scelto di non
fare nulla, 24 ore al giorno. Si lamenta e protesta, ma non va neanche
alla scuola che quelli dell’associazione «PerMoi» - un gruppo di
volenterosi ragazzi italiani - hanno aperto lì tra le palazzine. Sarà
poco, qualche ora di lezione al giorno, ma sarebbe il modo per uscire da
questo inferno. Invece no, stanno lì. In questa casa che è un tugurio
rovinato da anni di incuria. Se resisti hai per premio luce e acqua
gratis. Il gas non c’è, pazienza. Per scaldare le minestre o per un
piatto di pasta bastano le bombole come fanno i ragazzi della palazzina
grigia, l’ultima, sul retro. Quella che guarda dritto negli occhi ciò
che non ti aspetteresti in questa desolazione: la sede del Coni e un
ostello. Che sono lì, a cinque metri, e dalle loro finestre vedi balconi
con le parabole puntate verso l’Africa, i mobili accatastati sui
balconi, le tapparelle storte perché rotte da tempo e mai riparate.
Insomma, è l’altro Moi, quello che s’è salvato dalle occupazioni. E che
sogna uno sgombero impossibile. O almeno improbabile, perché mille e 500
persone da sistemare non sono uno scherzo.
A sera, quando
finalmente riapre il paninaro clandestino la calma sembra essere
tornata. «Ma voi italiani adesso dite ai vostri figli che non siamo
cani. Teneteli tranquilli, perché la nostra pazienza prima o poi finirà.
E allora anche noi andremo a prendere latte di benzina da lanciare
contro le vetrine» pontifica un altro senza nome, originario del Camerun
o chissà di dove. «Un morto nostro, un morto degli altri», teorizza in
questa sorta di occhio per occhio che se partisse non finirebbe mai. E
invoca Allah, parla del Bataclan che è stata la vendetta degli esclusi,
di morti e di pace. Preoccupante? Forse. Ma ha anche il sapore del
delirio di uno che si sente sotto attacco.