venerdì 25 novembre 2016

La Stampa 25.11.16
Se il giudice non è imparziale
Il neoeletto presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha annunciato l’intenzione di nominare alla Corte Suprema un giudice che sia dichiaratamente contrario alla legalizzazione dell’aborto
La scelta di Trump per un posto vacante alla Corte Suprema pone una questione più generale: l’indipendenza non basta
di Vladimiro Zagrebelsky

Il nuovo Presidente degli Stati Uniti ha annunciato che, per coprire alla Corte Suprema il posto resosi vacante per la morte del giudice Scalia, avrebbe nominato un giudice che fosse contrario alla legalizzazione dell’aborto e che condividesse la dottrina originalista nell’interpretazione della Costituzione. Un giudice cioè che affermasse che la Costituzione va interpretata solo secondo l’«original intent of the Framers», che la scrissero nel 1787. Nel caso dell’aborto, si tratta del successivo XIV emendamento approvato nel 1868 per introdurre l’eguale protezione dei cittadini da parte della legge e la regola del «due process of law».
Se la questione fosse nuovamente portata all’esame della Corte Suprema, il nuovo giudice dovrebbe votare per rovesciare la sentenza Roe vs. Wade con cui nel 1973 la Corte dichiarò incostituzionale il divieto di abortire. In effetti, argomenti «originalisti» erano stati svolti dal giudice Rehnquist per dissentire dalla decisione della maggioranza della Corte. È probabile che il presidente Trump possa mettere in atto la sua intenzione, poiché al Senato, che deve approvare la nomina presidenziale, la maggioranza è del partito repubblicano. Proprio per l’opposizione del Senato, Obama non è riuscito a far approvare la nomina di Merrick Garland.
Il proposito di Trump pone in luce fondamentali aspetti della funzione giudiziaria. Nel sistema americano i nove giudici della Corte Suprema sono nominati dal Presidente, con il consenso del Senato. La nomina a vita è la principale garanzia di indipendenza da cui i giudici sono protetti. Tuttavia il criterio di scelta che il Presidente ha reso pubblico non è privo di problemi, indipendentemente dalla specifica questione dell’aborto. È fuori di dubbio che il sistema di nomina dei giudici costituzionali implica la legittimità di scelte politicamente orientate. Così non sorprende la preferenza di Trump e del suo elettorato per un’interpretazione di diritti e libertà stabiliti dalla Costituzione nello stretto senso che ai loro tempi davano gli autori del testo costituzionale.
Si può certo dissentire da chi pensa di congelare la Costituzione. Nella storia americana l’interpretazione originalista ha portato la Corte Suprema a escludere gli schiavi dalla categoria dei «cittadini» protetti dalla Costituzione (1857), a legittimare la separazione tra bianchi e neri imposta in alcuni Stati del Sud degli Stati Uniti (1896), a opporsi a misure positive per il superamento delle diseguaglianze in danno dei neri (2007). I risultati letteralmente anacronistici e reazionari dell’interpretazione originalista, rispetto all’evoluzione della società, non sono danni collaterali, ma esprimono la natura stessa della politica di cui quel metodo è strumento. Ma proprio per questo è possibile che un Presidente scelga il giudice che deve nominare tra coloro che sono legati a quella interpretazione della Costituzione. Vi è nella storia delle nomine alla Corte Suprema un esempio illuminante. Nel 1987 il presidente Reagan nominò Robert H. Bork, giurista esponente della interpretazione originalista, ma la sua nomina venne respinta dal Senato proprio per l’opposizione suscitata dalla sua posizione conservatrice. Ciò che allora venne rifiutato oggi potrebbe invece essere preferito.
Un discorso diverso va però fatto quando il Presidente dice che sceglierà un giudice, che voterà in un certo modo nell’esercizio delle sue funzioni nella Corte Suprema. Il problema ora si pone per il voto negativo rispetto all’aborto, ma avrebbe lo stesso peso se l’indicazione presidenziale fosse di segno opposto. La questione è di principio e non riguarda tanto l’indipendenza, quanto l’imparzialità del giudice. Sia l’una sia l’altra sono caratteri essenziali, in assenza dei quali nessuno è giudice.
Chi è scelto e delegato da qualcun altro (qui addirittura dal Presidente) per decidere in un certo modo non può essere imparziale nell’affrontare la questione ai fini di una decisione giudiziaria. Chi già ha manifestato la sua opinione su una questione specifica, e per questo è stato nominato, difficilmente può essere aperto senza pregiudizio alla valutazione degli argomenti che le parti svilupperanno nel processo. Non solo sa di essere nominato per un certo scopo (e anche gli altri lo sanno), ma è naturalmente condizionato dal fatto di essersi già pubblicamente espresso. Di fronte agli argomenti delle parti nel processo egli non dovrà soltanto formarsi una convinzione, ma anche essere pronto a rovesciare la propria. Ciò che è più difficile, tanto da far sorgere la necessità o almeno l’opportunità di una sua astensione dal partecipare al giudizio. L’apertura a valutare gli argomenti delle parti è un carattere professionale essenziale del giudice e corrisponde al metodo del contraddittorio, proprio del processo decisionale giudiziario.
Tutto ciò non suggerisce però che il giudice non debba avere proprie idee, cultura e orientamenti, così come pretenderebbe la teoria che lo limita a essere pura e semplice bocca della legge. Questa posizione, propria dei secoli XVIII e XIX, è ancor oggi richiamata nella polemica politica e nella credenza diffusa. Ma l’interpretazione della legge lascia quasi sempre aperte più opzioni, poiché ogni espressione del legislatore si inserisce nel sistema complessivo delle leggi. E tra le leggi la Costituzione è posta in posizione preminente, cosicché le leggi devono essere interpretate in conformità a ciò che la Costituzione stabilisce. Il contenuto della Costituzione, specialmente quando si tratti di diritti e libertà, è tuttavia ampio, vago, pieno di rinvii a valori che si evolvono nel tempo e sono legittimamente oggetto di dibattito. Così è anche per molte leggi ordinarie, tanto che è difficile dire che un’applicazione della legge è giusta e tutte le altre sono sbagliate.
Per chi vive in sistemi europei ormai profondamente diversi da quello americano, il programma di Trump potrebbe essere discusso come un caso da laboratorio, stimolo a riflessioni. Esso, accanto all’indipendenza dei giudici, attira l’attenzione sull’esigenza della loro imparzialità, che invece spesso rimane in ombra. Chi li nomina dovrebbe astenersi dal condizionarla. Chi è nominato dovrebbe sottrarsi a ciò che mina il carattere proprio di ogni giudice.