Repubblica 24.11.16
Domenica scoprite il nuovo inserto culturale
Aspettando Robinson
Oggi la cultura stessa, se intesa come istituzione castale, pare occupare territori sempre più lontani non comunicanti
L’uomo cambia la natura con la conoscenza e sa bene che il mondo non è un’isola senza gli altri
di Stefano Bartezzaghi
NEL
 2017 saranno trent’anni che con Repubblica tutte le settimane c’è un 
Venerdì; ora lo raggiungerà Robinson. Non è per questa circostanza che 
il nuovo inserto culturale (sarà proprio al centro del giornale, ogni 
domenica a partire dalla prossima) si chiama così, anche se il caso 
onomastico ha una sua spiritosa pertinenza. Diciamo che non è soltanto 
per questo; né lo si deve soltanto al fatto, assai meno futile, che il 
mito robinsoniano ha attraversato tre secoli di letteratura narrativa e 
filosofica. Nella vicenda del naufrago operoso raccontata da Daniel 
Defoe nel 1719 si coglie un mito sociale ed economico fondamentale, su 
cui hanno riflettuto innanzitutto Jean-Jacques Rousseau e Karl Marx. La 
sua solitudine, la tenacia, l’ingegno, il confronto più aspro con la 
natura hanno ispirato una quantità di altri romanzi e racconti da 
riempirne scaffali. L’elenco degli autori sarebbe lunghissimo e quanto 
siano diversi fra loro lo mostrano già i nomi dei più recenti: J.M 
Coetzee, Derek Walcott, Manuel Vázquez Montalbán e l’Umberto Eco 
dell’Isola del giorno prima.
Al cinema, si 
va da Luis Buñuel a Robert Zemeckis. Opere di valore disuguale, ma fra 
loro c’è almeno un capolavoro assoluto, ed è il romanzo d’esordio di 
Michel Tournier, Venerdì, o il limbo del Pacifico .
La tenacia e l’ingegno di un mito che attraversa letterature e filosofie
Il
 libro di Tournier è del 1967 (nel 1974 ne uscì una versione per 
ragazzi, Venerdì, o la vita selvaggia). Gilles Deleuze gli dedicò il 
saggio Michel Tournier e il mondo senza Altri. L’omaggio a Robinson che 
domenica si inaugura, però, non è certo quello a un mondo «senza Altri» o
 a un cultura intesa come isola deserta, su cui arrangiarsi in 
conseguenza di un naufragio, dopo essersi salvati da soli, e a stento.
Diglielo
 a Robinson, o John Donne, che «nessun uomo è un’isola»! Ma poi informa 
anche i tanti che oggi promuovono l’isolazionismo delle persone, delle 
nazioni, del sapere e che del naufragio vorrebbero diffondere 
l’inconfondibile sensazione. No. È ad altro che occorre pensare. 
Innanzitutto alla cornice dell’avventura, dell’imminenza 
dell’impensabile, la stessa che colpì il giovane Crusoe quando non 
sospettava che la sua ribellione ai rigidi dettati paterni potesse 
incontrare la nemesi di un uragano tropicale. Lo spirito di avventura è 
costitutivo, per la letteratura e non solo. Oggi la cultura stessa, se 
intesa come istituzione castale, pare occupare territori sempre più 
angusti e sempre più lontani da altre sponde, isolette non comunicanti. 
Ma se al contrario la si vede come estensione di saperi, ramificati e 
“esplosi”, apre campi talmente vasti da disorientare qualsiasi aspirante
 cartografo.
Ora va anche detto che quella 
del Robinson di Defoe non era proprio una figura del tutto esemplare; 
per certi versi rappresenta anzi tutto quel che noi non siamo, né 
vorremmo o potremmo essere. L’eroe di Defoe era un negriero mancato, 
colonialista ed etnocentrico, se non proprio razzista; bigotto e 
sospetto utilitarista; vittima di prigionia, di naufragio, di solitudine
 assoluta e infine destinatario sia pure inconsapevole, di ricchezza 
abbastanza vasta da remunerarlo delle fatiche e degli stenti. Fosse 
proprio soltanto questo, sarebbe altrettanto pertinente riferirsi al 
pugile Sugar Ray Robinson o alla famiglia Robinson della serie tv e 
(forse anche di più) alla cara mrs. Robinson interpretata da Anne 
Bancroft e cantata da Simon & Garfunkel.
Ci
 sono tuttavia tre abitudini che Robinson prende dal momento in cui si 
trova nell’isola che oggi hanno per noi un significato prezioso. La 
prima è l’abitudine di marcare il tempo: costruisce una croce e ci segna
 una tacca per ogni giorno che passa, a partire dal giorno del suo 
approdo, il 30 settembre del 1659. Le tacche si accumuleranno come 
numeri di un giornale. Ma pure, e questa è la seconda caratteristica che
 ci interessa, Robinson vive nella pura presenza. Nulla gli può capitare
 che egli stesso non faccia capitare. Gli toccherà conoscere, esplorare,
 esperire, tentare, costruire; riprodurre da solo, insomma, l’idea che 
la cultura sia il modo che l’uomo ha per assumere, modificare, dare 
senso alla natura, che di per sé è ottusa al punto da sembrarci ostile. 
Solo lo sguardo, la manipolazione, l’intelligenza e l’operare (quelli di
 Robinson, sono descritti da Defoe con scrupolosa minuziosità) possono 
trasformare la natura in ambiente, e assieme cambiare il nostro stato, 
che altrimenti resterebbe davvero prossimo all’inermità del naufrago. La
 terza attività che Robinson intraprende è la compilazione, costante e 
scrupolosa, di un diario.
Ce n’è evidentemente abbastanza per un giornale 
che, nel tempo, intenda andare dove il sapere e l’arte cercano e trovano
 la loro relazione con gli ambienti naturali e sociali, e intenda 
impiegare — in presenza — la scrittura come strumento di conoscenza e 
costruzione, ancor prima che come dispositivo di memoria da consegnare 
ai posteri. Data un’isola, si può recriminare la carenza di traghetti o 
compiacersi delle sue ricchezze naturali, come il naufrago di Paolo 
Conte («Il clima è dolce intorno a me, / ci sono palme e bambù, / è un 
luogo pieno di virtù. /Onda su onda, / il mare mi ha portato qui, / 
ritmi canzoni, donne di sogno, / banane, lamponi...»). Ma, eludendo 
entrambe le alternative, ci si può anche domandare se l’Isola non 
contenga, potenzialmente, le risorse che ci consentano di presupporre e 
poi appurare l’esistenza dell’Arcipelago e di allestire gli auspicati 
collegamenti. Negare la cultura o chiudersi all’interno delle sue 
solipsistiche (e presunte) delizie non sono infatti gli unici 
atteggiamenti possibili della condizione isolana. Non è necessario 
guardare al mondo con il disincanto dato dalla lontananza e da una nuova
 separazione della cultura dal mondo. Ma se pure guardasse al mondo 
così, Robinson vorrebbe vivere dell’isola e, con la sua esperienza 
dell’isola, raggiungere e collegarla al primo dei molti Altrove 
circostanti.
 
