Repubblica Cult 20.11.16
I tabù del mondo
Non è più il lavoro ma la sua assenza a generare mostri
Marx
criticava l’alienazione prodotta dal capitalismo Negli anni della
contestazione giovanile fu l’occupazione in quanto tale ad essere
condannata come un dispositivo di sfruttamento Ai tempi della crisi il
problema è l’esistenza di una economia afflitta dal primato della
finanza
Quando il profitto arriva solo dal denaro diventa l’indice
drammatico di un rovesciamento nichilistico dei valori e a rimetterci
sono i deboli
di Massimo Recalcati
Con questa
analisi dedicata al lavoro si conclude la serie di Massimo Recalcati “I
tabù del mondo”, che dall’inizio dell’anno ha indagato a 360 gradi miti,
divieti, pulsioni che ci attraversano, come individui e come parte
della società Le puntate precedenti sono uscite ogni domenica, a partire
dal 3 gennaio 2016
In Marx la critica allo
sfruttamento del lavoro proprio del regime capitalista si è sempre
accompagnata ad una valorizzazione del lavoro in quanto tale. Anzi, nei
Manoscritti economico- filosofici del 1844 l’umanizzazione della vita
non può che compiersi attraverso il lavoro che è innanzitutto il modo
col quale si manifesta l’ ”essenza” dell’uomo in quanto tale. Se,
infatti, il capitalismo deruba l’uomo della sua umanità, rendendolo
simile ad una bestia da soma, è perché si è indebitamente appropriato
del prodotto del suo lavoro. In questo modo ha reso impossibile quel
riconoscimento del valore della vita umana che dovrebbe realizzarsi
quando il lavoratore può specchiarsi nel prodotto del suo lavoro. È
questo, in estrema sintesi, il carattere alienante dell’espropriazione
capitalista del lavoro operaio: il lavoratore perde contatto con
l’oggetto del proprio lavoro e con il senso stesso della sua prassi.
Esiste
però una tendenza interna al marxismo dove questa valorizzazione del
lavoro viene negata identificando l’attività stessa del lavoro – e non
la sua forma alienata prodotta dal capitalismo – come una attività di
mortificazione e di sfruttamento dell’uomo. Questa tendenza ha avuto
diversi interpreti (da Andrè Gorz ad Herbert Marcuse, per lo più
travisato, sino ai più recenti contributi di Robert Kurz, filosofo
marxista tra gli autori di un eloquente Manifesto contro il lavoro
redatto nel 2003) ed è quella risultata culturalmente dominante nelle
contestazioni del ’68 e del ’77. Lavorare non alimenta la vita ma la
mortifica, non genera soddisfazione ma abbruttimento. Il rigore
umanistico del giovane Marx viene curvato verso un inedito edonismo
libertario che rigetta il lavoro in quanto tale considerandolo un
principio socialmente costrittivo. Il lavoro diventa un tabù di cui
liberarsi il più in fretta possibile. È la cultura del parco Lambro del
’76 dove la celebrazione freak dello spinello e il culto anarchico della
libertà conducevano a riconoscere nel lavoro in quanto tale un puro
dispositivo di sfruttamento piuttosto che un luogo essenziale per
l’umanizzazione della vita. Non si trattava solo di criticare il lavoro
alienato del regime capitalista, ma la tirannide in sé del lavoro, la
trasformazione moralistica del mondo in un grande fabbrica di
produzione.
Nell’attuale tempo della crisi economica e della
disoccupazione crescente, soprattutto tra i giovani, questi discorsi
impallidiscono di fronte alla dura prova della realtà. La vita umana
senza la possibilità del lavoro è vita morta, vita che perde ogni
dignità. I suicidi che nel tempo più acuto della recente crisi hanno
colpito imprenditori e lavoratori segnalano spietatamente – come il
giovane Marx aveva lucidamente affermato – che senza l’occasione del
lavoro, senza impresa, la vita non accede ad alcuna libertà, ma tende a
disumanizzarsi e a percepirsi come superflua e insignificante. È,
infatti, solo attraverso il lavoro che facciamo esperienza della
soddisfazione simbolica del riconoscimento. La nostra vita acquista
valore umano perché, diversamente da quella animale, non si limita a
reagire agli stimoli del mondo, ma sa trasformare il mondo, sa imprimere
al mondo una forma umana. Perdere o non trovare lavoro significa essere
tagliati fuori da qualunque esperienza fondamentale di riconoscimento.
Il vero problema oggi non è la critica alla natura alienata del lavoro,
ma l’esistenza di una economia sempre più afflitta dal primato della
finanza che ha fatto evaporare la centralità umana del lavoro. La via
“lunga” del lavoro è stata sostituita da quella “breve”
dell’allucinazione finanziaria, del profitto facile. Quando infatti il
profitto si separa dalla forza-lavoro per generarsi solo dal denaro,
diviene l’indice drammatico di un rovesciamento nichilistico dei valori:
non è il lavoro ad essere un valore, ma è il valore che riproduce se
stesso a prescindere dal lavoro. In un libro di qualche anno fa titolato
Soggettività smarrita. Sulle retoriche del capitalismo contemporaneo
(Bruno Mondadori, 2012), il sociologo Federico Chicchi mostrava con
efficacia la trasfigurazione che l’economia post-fordista ha impresso al
lavoro umano. Se al tempo fordista il lavoro veniva organizzato da una
sua irreggimentazione paranoica ponendo in primo piano la sua
meccanizzazione anonima che surclassa la singolarità del lavoratore, nel
nostro tempo in primo piano è un godimento – quello della finanza – che
rifiuta ogni limite subordinando alla sua avidità compulsiva e astratta
la dimensione reale del lavoro. Per questo al posto
dell’irreggimentazione disciplinare del lavoro di tipo fordista, oggi
abbiamo il problema della sua precarizzazione e della sua evaporazione,
il suo declassamento rispetto all’economia spettrale della finanza. La
fine del controllo paranoide del lavoro che aveva caratterizzato
l’economia fordista – è una tesi di Chicchi – genera però una libertà
individuale solo apparente. Il nuovo scenario antropologico del soggetto
contemporaneo appare dominato da una precarietà diffusa che è la faccia
oscura della maggiore individualizzazione e autoregolazione del lavoro.
L’edonismo post-marxista rivela qui tutta la sua miopia: non è il
lavoro a sfruttare la vita, ma è la vita che senza lavoro si consuma in
quella nuova schiavitù che chiamiamo libertà. Se l’espansione della
libertà è una evidenza solo individualistica che taglia fuori i più
deboli, che li priva dell’occasione del lavoro, questa libertà resta
solo – come Pasolini aveva già intuito – una versione nichilistica del
puro arbitrio.