Il Fatto 20.11.16
Etruria: anche la Consob indaga su papà Boschi
I 34 dirigenti dei due passati cda rischiano la multa: “Non avete tutelato gli investitori di subordinate”
di Valeria Pacelli e Davide Vecchi
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il manifesto 20.11.16
A reti unificate, in tv Renzi si fa in quattro
Il parabolico. Premier Millecanali è riuscito a battere Berlusconi
di Vincenzo Vita
L’esposto presentato dal Comitato per il No al referendum costituzionale sulle violazioni della par condicio di questa campagna in corso è davvero il minimo sindacale.
La costante negazione di un corretto diritto all’informazione meriterebbe qualche attenzione generale in più. Anche da parte delle forze di sinistra, che talvolta sembrano ignorare la gravità di quello che accade.
Stiamo parlando della torsione filogovernativa di grande parte dei media.
Questi ultimi, oggi persino in misura maggiore rispetto all’età berlusconiana, sono diventati una componente di una sorta di sistema politico allargato, piuttosto che un rigoroso contropotere.
Ecco il perché si è sentita l’esigenza di ricorrere allo strumento dell’esposto, cui l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni è tenuta a rispondere, e non con qualche richiamo flebile e burocratico.
La legge 249 che istituì l’Agcom introduce meccanismi sanzionatori affidati ad un organismo che si voleva “cattivo” e determinato. La normativa sulla par condicio è aggirata bellamente attraverso la costante presenza nelle reti e nelle testate di Renzi, il quale usa molti travestimenti: statista europeo, presidente del consiglio, leader di partito, esponente di punta del Sì.
È così che salta ogni conteggio delle presenze radiotelevisive. Renzi, infatti, quando parla sembra una star delle telepromozioni, in cui il conduttore del programma a un certo punto apre il siparietto pubblicitario, forte della presa sul pubblico del programma stesso.
Sono forme sofisticate di manipolazione, che le istituzioni preposte alla vigilanza dovrebbero sorvegliare. E punire, quando necessario.
Le ultime due settimane prima del voto sono decisive nella formazione dell’opinione elettorale. Ecco, quindi, che si esige un comportamentale adeguato alla bisogna. Adesso, subito. Altrimenti, come già è accaduto in passato, il «riequilibrio» è richiesto a cose fatte.
Un punto, poi, merita un chiarimento. Il concetto di «riequilibrio».
Con l’invito a Matteo Salvini, Fazio non pareggia la presenza della scorsa domenica di Renzi. Renzi è il Sì. Salvini, con rispetto parlando, non sintetizza le ragioni del No.
Serviva uno dei costituzionalisti prestigiosi che diedero vita alla campagna contro la revisione della Costituzione. O il presidente dell’Anpi, altrettanto decisivo. La forma è sostanza. E viceversa. O Salvini è una sineddoche, la parte per il tutto? Insomma, la Rai e Fazio non possono cavarsela così. Siamo seri.
Il Fatto 20.11.16
Il vignettista Così il 4 dicembre si presenta alle urne: “Mi turo il naso”
Voto no alla riforma, anche se ho paura dei nuovi fascismi
di Vauro Senesi
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il manifesto 20.11.16
Maurizio Ferraris:
«Il voto a Trump una grande imbecillità, quello italiano meno spettacolare»
Intervista/ Il filosofo del nuovo realismo. Ci si occupa di questioni che dovrebbero essere infime o ridicole. Come Francischiello che nel 1859 pensò bene di cambiare le uniformi all’esercito. Bisogna essere molto imbecilli per credere che la rete in quanto tale sia un agone democratico
intervista di Daniela Preziosi
Filosofo, docente all’università di Torino, Maurizio Ferraris ha appena pubblicato per il Mulino un saggio dal titolo L’imbecillità è una cosa seria. Gli chiediamo di applicare la sua lettura al dibattito politico italiano e non solo. Che spesso appare una cosa grave, ma al contrario non seria.
Lei ha definito l’elezione di Trump «una grande pagina nella storia dell’imbecillità». Come giudica la campagna referendaria italiana?
Molto meno spettacolare. L’imbecillità in politica tocca i suoi vertici con Mussolini che con occhi roteanti annuncia l’entrata in guerra e gli imbecilli lo inneggiano, con Goebbels che chiede ai tedeschi se vogliono la guerra totale e questi coralmente dicono di sì, che la vogliono (il bello è che a differenza degli italiani facevano sul serio). Ha momenti significativi in Hollande in vespa, in Tejero con il tricorno e la pistola alzata, in Bossi in canottiera, nel premier polacco Kaczynski che impone al pilota di atterrare con un tempo da lupi e si schianta, in Berlusconi prefatore plagiario di Thomas More, nelle poesie di Bondi e nei canti “Per fortuna che Silvio c’è”. Niente di simile nella campagna in corso.
Il 4 dicembre voterà Sì o No?
Non ho deciso, e mi chiedo se mi deciderò mai. Mi interessa tanto poco quanto il precedente sulle trivelle, e quanto tutti i referendum che lo hanno preceduto con la sola esclusione di quello sul divorzio. Nel momento in cui gli stati nazionali dovrebbero scomparire per lasciar posto all’Europa – ma temo che l’occasione storica sia ormai sfumata, perché nessuna élite nazionale ha voluto cedere potere, condannandosi peraltro all’impotenza, comportamento che mi sembra ascrivibile alla sindrome che stiamo studiando – ci si occupa di questioni che, agli occhi di una grande politica, dovrebbero essere infime o ridicole. Quando, tra pochissimo, ci si dovrà occupare di come allestire una forza militare europea dopo il ritiro degli Stati Uniti, si toccherà con mano quanto peso politico potesse avere il dibattito sull’opportunità o meno di una “camera delle rappresentanze e delle autonomie”. Mi ricorda Francischiello che nel 1859 pensò bene di cambiare le uniformi del Regno delle due Sicilie.
Renzi afferma che «il sistema è tutto schierato con il No». Significa, per esempio, sostenere che la Confindustria schierata con il Sì è antisistema. Ci si sente un po’ imbecilli ad essere destinatari di questo genere di comunicazione.
È una sensazione giustissima, ma il presidente fa come tutti gli altri contendenti dell’agone politico. Si è sempre detto che la prima vittima della guerra è la verità. Si dovrebbe trovare il modo, alla luce del trionfo di populismi post-fattuali caratteristico degli ultimi 20 anni, di rimettere all’ordine del giorno il nesso insolubile tra democrazia e verità. È molto più importante della questione morale: senza verità non può esserci democrazia, e le democrazie postfattuali conservano della democrazia soltanto il suffragio universale.
C’è un’imbecillità di massa, scrive lei, e una di élite. Se ne rintracciano esempi nel dibattito politico di oggi?
L’imbecillità di élite risale alla notte dei tempi, e anche qui con momenti alti, che so, proporre brioches al popolo senza pane. Le masse ridevano o si arrabbiavano, e si sentivano immuni, per loro gli imbecilli erano i signori, con le loro fisime e le loro debolezze. Gli utopisti politici, per parte loro, ritenevano che, invece, le masse fossero portatrici del senso della storia e di valori alti e irrinunciabili, di generosità, bontà, sapere (la scienza proletaria, variante della sapienza poetica di Vico). Poi anche le masse hanno avuto espressione politica e mediatica, e si sono rivelate allo stesso livello di imbecillità delle élite. I nostalgici dei valori autentici li hanno cercati altrove: nell’alterità geografica, o nell’animalità, ma non sono sicuro che sia la soluzione giusta: perché mai un migrante dovrebbe essere immune dall’imbecillità?
Che ruolo ha la Rete in questo dibattito?
Dà voce, rappresentanza e documentazione potenzialmente incancellabile all’imbecillità, tanto di élite quanto di massa. «Madamina, il catalogo è questo». Inoltre procede alla costruzione di post-facts, cioè di frottole. Quando Chomsky denunciava le menzogne del New York Times non poteva immaginare che cosa avrebbe fatto il web.
Si confonde la Rete con un agone democratico, anche grazie a una forza come M5S?
Sì, si confonde, o almeno si confondeva, sull’onda dei miti di trasparenza che avevano caratterizzato i primi anni della rete. Ora però bisogna essere molto più imbecilli della media per credere che la rete in quanto tale, senza dispositivi di verifica, accreditamento, validazione, sia un agone democratico. Erano più trasparenti (anche perché contenevano l’80% di verità) gli editoriali di Goebbels sul Völkischer Beobachter.
Ha scritto: «Noi non siamo affatto più imbecilli dei nostri antenati, anzi, è altamente probabile che siamo molto più intelligenti di loro». C’è speranza, dunque?
Ci deve essere. Se noi avessimo la certezza che l’umanità va verso una imbecillità crescente non ci sarebbe senso nella storia e “progresso” sarebbe una parola vuota. Ma non è così. Abbiamo per esempio preso coscienza (almeno in teoria) della necessità di tutelare l’ambiente o della parità fra i sessi. La gente non va più al fronte in stato di esaltazione patriottica. Trump parla di cacciare i clandestini, non di sterminarli, magari dipendesse da lui lo farebbe, ma sa che quegli imbecilli che lo hanno votato non lo accetterebbero, mentre gli imbecilli al cubo che hanno votato Hitler lo hanno accettato. Sbagliando si impara, o altri imparano.
il manifesto 20.11.16
Jobs Act: il 75% dei lavoratori è precario
Fondazione Di Vittorio (Cgil). Sul Jobs Act una cosa vera Renzi l’ha detta: «La ritengo la legge che ha inciso di più sulla realtà»: il 75% dei nuovi rapporti di lavoro creati in mille giorni è precario e a breve termine
di Roberto Ciccarelli
Sul Jobs Act una cosa vera Renzi l’ha detta: «La ritengo la legge che ha inciso di più sulla realtà». L’uso dei fondi pubblici destinati alle imprese che stanno beneficiando degli sgravi contributivi triennali per i neo-assunti ha rafforzato la realtà del lavoro precario, drogando le statistiche sull’occupazione e permettendo al governo di celebrare un presunto successo su questo fronte nel giorno delle «mille balle blu», i mille giorni passati a Palazzo Chigi.
Vediamola la realtà «cambiata» dal Jobs Act. I dati dell’Inps rielaborati dalla fondazione Di Vittorio della Cgil confermano gli effetti della riforma del mercato del lavoro che ha abolito l’articolo 18 e introdotto un nuovo pseudo-contratto per i neo-assunti: quello a «tutele crescenti», dove a crescere sono le tutele dei datori di lavoro che licenziano quando termina l’effetto degli sgravi.
Le assunzioni a tempo determinato e quelle stagionali rappresentano quasi il 75% dei nuovi rapporti di lavoro prodotti nei primi mille giorni renziani. Queste tipologie riguardano rapporti di lavoro spesso di durata molto breve che fanno capo ad uno stesso individuo. Nel rapporto annuale sulle comunicazioni obbligatorie 2016 del ministero del Lavoro si sostiene che nel 2015, nel settore privato, il 35,4% dei contratti a tempo determinato aveva una fine prevista entro un mese, ed un altro 23,7% da 1 a 3 mesi. Nei primi nove mesi del 2016 si è verificata una consistente espansione del lavoro a termine, che – insieme al lavoro stagionale- presenta una variazione netta di +462 mila unità, contro meno di 180 mila del corrispondente periodo del 2015. Escludendo i rapporti di lavoro stagionali, il saldo è di +395 mila unità, a fronte di valori nettamente inferiori nel triennio precedente. Dunque, più precari e sempre più a scadenza. Questa è la struttura del mercato del lavoro italiano rafforzata dalla «legge che ha inciso di più sulla realtà».
Il problema di Renzi è il taglio degli sgravi da 8.040 euro a 3.250 per assunto tranne al Sud dove, per una decisione propagandistica pro «Sì» al referendum, gli sgravi saranno totali anche nel 2017. Con il decrescere dei fondi, diminuiscono i tempi indeterminati. Lo dimostrano i dati rilanciati dalla Fondazione Di Vittorio: nei primi 9 mesi di quest’anno le assunzioni a tempo indeterminato (926 mila) sono inferiori non solo a quelle dei primi 9 mesi del 2015 (con una differenza di -443 mila, pari a -32,3%), ma anche a quelle dei corrispondenti periodi del 2014 (-65 mila, pari al -6,5%) e del 2013 (-85 mila, pari al -8,4%). Aumentano invece i 2,7 milioni le assunzioni a termine, con una variazione rispetto al 2015 di +91 mila unità, di +154 mila rispetto al 2014 ed una ancora più cospicua rispetto al 2013 (+325 mila). Non solo il Jobs Act non produce occupazione «fissa», ma ne produce molto di meno rispetto al periodo in cui non c’era (2014).
L’analisi sulle attivazione e le cessazioni dei contratti condotta dall’Inps permette di fornire un’immagine più realistica del mercato del lavoro. Il saldo è positivo grazie alle minori cessazioni nel 2016 (-90 mila rispetto al 2015) e le trasformazioni dei vecchi contratti in tempi indeterminati. Senza questi fattori il bilancio sarebbe negativo. Nel resto della campagna elettorale, ci si può scommettere, Renzi non parlerà mai di voucher: nel 2016 sono aumentati del 34%, 109 milioni. Sarebbero almeno 86 mila impiegati a termine in più al mese.
Il Sole 20.11.16
Siria e Iraq
Che cosa verrà dopo l’Isis? Il populismo mediorientale
di Alberto Negri
C’è stato un tempo in cui Siria e Iraq erano ancora il nome di due Paesi, di due nazioni, non soltanto di guerre infinite. La Siria da cinque anni e l’Iraq da due decenni sono il luogo di massacri indicibili e che pure abbiamo testimoniato. Siria e Iraq ormai esistono quasi soltanto con un acronimo, il Siraq, che a sua volta ne rievoca un altro, l’Af-Pak.
La geopolitica non manca di fantasia: come chiameremo tra un po’ di tempo la Libia divisa da tra Tripolitania e Cirenaica? E forse avremo ancora uno Yemen del Nord e uno del Sud, questa volta non separati delle ideologie ma dal settarismo. E’ un’illusione che la sconfitta del Califfato porterà a soluzioni pacifiche: la guerra al terrorismo verrà sostituita da altri conflitti perché lo Stato Islamico non è la causa ma il sintomo della disgregazione di popoli.
La Russia stessa e gli Stati Uniti non hanno per niente le idee chiare sul da farsi, se non al massimo dividere i contendenti e mantenere le sfere di influenza rappresentate da basi militari, qualche pipeline e dagli interessi economici che fanno di alcuni attori regionali dei clienti di primo piano delle loro industrie belliche. Quando spiegheranno a Trump che gli Usa hanno sette basi militari nel Golfo e la Sesta Flotta in Bahrein a guardia delle rotte del petrolio, che l’Arabia Saudita è il terzo Paese del mondo per acquisti di armi, comprate per il 90% dagli Usa, è possibile che alcune dichiarazioni di campagna elettorale appariranno effimere.
Si aspetta soltanto il momento in cui questi stati verranno definitivamente frantumati in entità diverse, magari riuniti sotto il nome che avevano prima come in una sorta di fiction ereditata dalla spartizione anglo-francese del secolo scorso per nascondere la realtà di un mondo di ex stati, popoli e Paesi. Solo israeliani e palestinesi non riescono a separarsi, al punto da fare apparire quasi obsoleta la formula “due popoli e due stati”. Ma anche la separazione è complicata, l’ha evocata recentemente a Washington il governatore di Kirkuk se i curdi non si metteranno d’accordo con il governo centrale di Baghdad.
La nuvola nera dei pozzi petroliferi incendiati dall'Isis che avvolge adesso Mosul e dintorni è un avvertimento che gli interessi sulla spartizione delle risorse saranno determinanti, qui come in Siria e in Libia. E pensare che il 1989 era finito con il crollo del Muro di Berlino e la riunificazione delle due Germanie. Eppure proprio quell’anno Slobodan Milosevic, celebrando i 600 anni della battaglia di Kosovo Polje, il Campo dei Merli, dava il via alla disgregazione della Jugoslavia di Tito che si è poi propagata nel tempo all’Est Europa fino all’Ucraina. Ma allora tutti correvano a Berlino a prendere un pezzo di Muro come un souvenir della fine della storia. C’è stato un tempo in cui si volevano costruire degli stati e addirittura sovranazionali che contenessero, etnie, culture, lingue diverse. Egitto e Siria provarono la riunificazione sotto il laico Nasser a fine anni'50 mentre si diffondeva l'ideologia panaraba del partito Baath fondato da un cristiano ortodosso e da un musulmano sunnita che accomunò per un breve periodo Damasco e Baghdad. Non sono finiti soltanto gli stati, sono finiti i popoli stessi, intesi come volontà di vivere insieme e di condivisione di una comunità politica e sociale. La caduta dei dittatori, da Saddam Hussein alle primavere arabe, ha mascherato con la loro fine il tramonto dell'era post-coloniale e dello stato-nazione che teneva a bada con metodi autocratici i tribalismi. Oggi si punta a creare entità autonome settarie o etnicamente pure basate su giuste rivendicazioni ma che si privano di pezzi di storia comune per giustificare la loro esistenza o ne resuscitano un'altra ormai archiviata. Anche la crisi della Turchia di Erdogan risponde a questa tendenza: quella di uno stato-nazione che ha dovuto rassegnarsi quasi un secolo fa all’identità turca per sopravvivere al crollo di un’Impero ottomano che era molto di più che turco. Al punto che oggi per contenere i curdi la Turchia ricorre alla violenza e all’espansione militare oltre i suoi confini. Non è un segnale di forza ma di debolezza. Finiti i popoli, con la loro complessità, ricchezza e molteplicità, è rimasto però anche qui in Medio Oriente il populismo, l’estremo tentativo di dare un senso purchessia a qualche cosa che si è esaurito, una sorta di degenerazione finale, accompagnata dalla menzogna che “puri” si vive meglio.
Il Sole Domenica 20.11.16
Il cocktail esistenzialista
Negli anni ’30 Aron introdusse de Beauvoir e Sartre alla fenomenologia
Nei famosi caffè parigini si parlava di «quotidianità» e del Dasein di Heidegger
di John Banville
Per circa due decenni dopo la Seconda guerra mondiale, la fascinazione generale nei confronti dell’esistenzialismo fu un evento davvero inconsueto, visto che – soprattutto nel mondo anglosassone – erano davvero in pochi a sapere che cosa fosse l’esistenzialismo. Per molti, infatti, non era altro che quello che oggi verrebbe definito uno “stile di vita”, come ci spiegano gli habitué di due celebri caffè di Saint-Germain- des-Prés tuttora di gran moda, anche se con prezzi eccessivamente gonfiati: il Flore e il Deux Magots, a due passi l’uno dall’altro. Buona parte di questa fascinazione fu alimentata, per esempio, dalla cantante Juliette Gréco che, con i suoi maglioni neri alla dolcevita e i lunghi capelli lisci anch’essi corvini, stabilì un vero e proprio “look esistenzialista”. Ma il re e la regina dell’epoca furono senza dubbio Jean-Paul Sartre e la sua amante, nonché compagna di tutta una vita, Simone de Beauvoir. E questo fu per loro un periodo davvero grandioso. Se da un lato nella pletora degli esistenzialisti abbondava il numero di chi era, come disse W.H. Auden a Yeats, «come noi sciocco», alcuni di loro erano dei pensatori di tutto rispetto, e l’esistenzialismo – il termine fu coniato da un giornalista – è stato, e continua a essere, un contributo notevole ai metodi per fare filosofia.
Sarah Bakewell, già autrice di una biografia di grande successo su Montaigne, ripercorre i primissimi esordi filosofici di Sartre in un incontro a base di cocktail all’albicocca avvenuto tra lui, la de Beauvoir e il suo vecchio compagno di scuola, Raymond Aron, sul finire del 1932 al caffè Bec-de-Gaz, in rue Montparnasse. Aron infatti, che con il suo L’oppio degli intellettuali diventerà uno dei più formidabili antagonisti di Sartre, aveva studiato a Berlino e poteva quindi illustrare alla coppia di amici un modo rivoluzionario di affrontare le tradizionali questioni della filosofia che andava sotto il nome, un po’ lungo ma decisamente eufonico, di “fenomenologia”. «Se sei un fenomenologo», scrive la Bakewell citando Aron, «puoi parlare di questo cocktail ed è filosofia!». Stando al racconto offertoci dalla de Beauvoir di questo momento cruciale, ecco che nel rendersi conto della portata di un simile approccio filosofico all’annosa questione di che cosa significhi essere al mondo, Sartre impallidì. Questi era già venuto a contatto con l’opera di Martin Heidegger, la cui lezione Che cos’è metafisica? era stata tradotta e pubblicata in una rivista francese, accanto a un saggio giovanile dello stesso Sartre, nel 1931. Come ammesso dalla de Beauvoir, all’epoca né lei né il suo compagno erano riusciti a capire molto dello scritto di Heidegger – cosa che non stupisce affatto, vista la sua difficoltà sia concettuale che stilistica –; ora però, ascoltando le parole di Aron sulla fenomenologia, iniziarono a intravedere i contorni di un metodo filosofico che avrebbe eliminato i vecchi e triti rompicapi e affrontato direttamente il mondo delle cose, inclusi gli esseri umani e l’Essere umano – quello che Heidegger definì il Dasein.
La fenomenologia si era sviluppata a partire dall’opera di Edmund Husserl, a sua volta ispirato dagli insegnamenti carismatici di Franz Brentano, un ex prete cattolico e studioso di Aristotele. Negli anni Ottanta del XIX secolo, Husserl ebbe modo di seguire, presso l’Università di Vienna, le lezioni di Brentano sulla relazione tra coscienza e mondo esterno e da qui l’allievo si spinse oltre, arrivando a sviluppare un approccio al pensiero con cui potevano essere messi da parte o “tra parentesi” – Husserl utilizzò il termine greco epoché – gli assiomi e le astrazioni che avevano ossessionato i filosofi fin dai tempi di Platone, così che tutta l’attenzione potesse invece essere rivolta ai fenomeni, ossia alle cose con cui ciascuno di noi ha a che fare nella vita di tutti i giorni. Per gli esseri umani, essere equivale a essere coscienti, ed essere coscienti significa essere consapevoli della propria condizione di creature “gettate”, per usare le parole di Heidegger, in un mondo contingente. È questo ciò che differenzia gli esseri umani dagli oggetti che li circondano, come ad esempio un castagno, il quale è semplicemente, senza bisogno di angustiare la sua chioma frondosa con questioni concernenti la propria origine, il suo essere quaggiù e il suo andarsene da qui.
Quest’ultima, la questione della morte, fu tra le più importanti, soprattutto per Heidegger. L’auto-coscienza, che per quanto ne sappiamo è propria unicamente dell’essere umano, porta con sé la consapevolezza di dover morire e questa a sua volta, per Sartre così come per Heidegger, solleva tutta una serie di questioni spinose legate all’agire, all’autenticità e, soprattutto, alla libertà. Per Heidegger, essere significa “essere-per- la-morte”. E così pure, in buona parte, per Sartre – dopotutto, il titolo della sua opera magna è appunto L’essere e il nulla –; tuttavia, quest’ultimo e con lui gli altri esponenti dell’esistenzialismo francese erano più propensi verso la vita “ordinaria” di quanto non lo fossero i loro mentori tedeschi.
I due poli della carriera filosofica di Heidegger erano l’aula di lezione e il sentiero di campagna; per Sartre e la sua cerchia invece erano i caffè e, ancor di più, le strade fuori dai caffè, lì dove la vita brulica incessantemente. Potremmo affermare che se la preoccupazione di Heidegger è l’esserci, una delle traduzioni del termine Dasein, il vero interesse di Sartre e della de Beauvoir – così come di altri esistenzialisti francesi tra cui Maurice Merleau-Ponty – è la quotidianità delle cose. La Bakewell è estremamente abile nel cogliere le differenze sostanziali tra il concetto heideggeriano di filosofia intesa come Blut und Boden e quello di una filosofia socialmente più consapevole e engagé privilegiato da Sartre e dalla de Beauvoir. Se da un lato questi ultimi – e in particolare la de Beauvoir – condividevano con Heidegger quello che la Bakewell descrive come un «vivo stupore dinanzi al fatto che c’è qualcosa anziché il niente», commentando il modo di pensare di Heidegger simile al procedere di una talpa e ossessionato dalla morte, l’Autrice scrive pure che «c’è qualcosa di funereo in questo mondo vegetativo». In un passo decisamente più leggero ma non meno eloquente, la Bakewell cita il Philosophical Lexicon, l’opera satirica di Daniel Dennett e Asbjørn Steglich- Petersen, in cui viene definito come un «Heidegger» un «poderoso dispositivo per annoiare attraverso densi strati di sostanza», come nel caso: «È sepolto così in profondità che occorrerà un’Heidegger». A ogni modo, altri videro questo scavatore nelle profondità della terra sotto una luce affatto diversa. Hannah Arendt ebbe con lui una relazione appassionata negli anni in cui fu sua allieva – e come lei, molti altri giovani intellettuali dell’epoca trovarono in Heidegger un nuovo modo entusiasmante di pensare alla filosofia –, e in seguito la filosofa si espresse in difesa del suo passato nazista sostenendo che egli non fosse un reazionario, ma semplicemente un “primitivo”. Un altro dei suoi allievi, George Pitch, lo presentò in questi termini: «Come si potrebbe descrivere l’uomo Heidegger? Viveva in un paesaggio in tempesta. Una volta, mentre passeggiavamo a Hinterzarten durante un furioso temporale, capitò che un albero venisse sradicato ad appena una decina di metri da noi. Ne rimasi davvero colpito, come se in quel momento avessi potuto vedere ciò che stava accadendo dentro di lui». Tuttavia, se per Heidegger la vita consisteva in una scarpinata solitaria in una foresta sempre più oscura, per Sartre e la de Beauvoir, quantomeno nei primi anni, essa era piuttosto una flânerie sul Boul’Mich’.
Commentando l’adesione di Heidegger al nazismo, nel 1944 Sartre scrisse: «Heidegger non ha carattere; questa è la verità». Sartre invece possedeva carattere, e parecchio, il che fu in parte il suo problema: aveva dalla sua il fatto di essere semplicemente troppo affascinante. A vederlo, non era davvero niente di speciale, nemmeno per Simone de Beauvoir – e infatti guardarlo non doveva essere facile, visto che era fortemente strabico –; tuttavia, era un personaggio immensamente attraente: uno dei pochissimi casi di un filosofo di primissimo livello che era al tempo stesso una celebrità mondiale. Come scrive la Bakewell, Sartre si rese conto delle dimensioni della propria fama allorché, nell’ottobre del 1945, tenne a Parigi una conferenza pubblica per il club Maintenant: il botteghino fu preso d’assalto, alcune persone svennero e diverse sedie furono danneggiate. «Le didascalie sotto le fotografie per la rivista “Time” riportavano: “Il filosofo Sartre. Donne in estasi». In un certo senso, però, la de Beauvoir fu un personaggio ancor più formidabile rispetto al suo compagno, e forse una pensatrice di altrettanto spessore. La Bakewell considera Il secondo sesso, lo studio della de Bauvoir sulla condizione delle donne nel mondo, pubblicato nel 1949, «l’opera del movimento esistenzialista più influente di sempre». È una dichiarazione alquanto generosa se si tratta di porre quest’opera accanto, ad esempio, a Essere e tempo di Heidegger; senza dubbio, dipende da che cosa si intenda per “influente”. Tuttavia, la Bakewell ha sicuramente ragione quando scrive che il “secondo sesso” vive gran parte della vita in uno stato di mauvaise foi sartriana, «fingendo di essere degli oggetti», e che quindi vi è una lotta che divampa in ogni donna, «e in virtù di questo la de Beauvoir riteneva che il problema di come essere donna fosse la questione esistenzialista per eccellenza».
Al caffè degli esistenzialisti è uno studio eccezionalmente ricco, istruttivo, garbatamente colto e deliziosamente umoristico di un periodo affascinante nella tormentata storia del XX secolo. La Bakewell è riuscita a trovare una giusta combinazione di entusiasmo, ammirazione e irriverenza, senza mai timore di ironizzare sul tema trattato; i riferimenti da lei forniti spaziano da Kierkegaard a Ridley Scott, da Emmanuel Lévinas a Radiazioni BX: distruzione uomo. Sebbene esprima alcune riserve sull’importanza dell’esistenzialismo nel lungo termine – «Forse è proprio la fenomenologia […]la vera scuola di pensiero radicale» –, la Bakewell ne ribadisce però il valore in quanto modo di pensare a che cosa significhi essere umani. Scrive infatti: «Possiamo esplorare le vie che gli esistenzialisti ci indicano, senza ritenerli necessariamente delle personalità esemplari, come pure dei pensatori da prendere a modello. Sono pensatori interessanti, cosa che credo li renda degni di ogni nostro sforzo».
– Traduzione di Michele Zurlo
Sarah Bakewell, Al caffè degli esistenzialisti , traduzione di Michele Zurlo, Fazi, Roma,
pagg. 470, € 20. Oggi a BookCity, al teatro Franco Parenti, Milano, ore 13, presentazione con l’autrice, Mauro Bonazzi, Armando Massarenti, Gianni Vattimo
Il Sole Domenica 20.11.16
Il matematico che corresse Einstein
Tullio Levi-Civita costrinse il teorico della relatività a rivederne i teoremi dopo un intenso scambio epistolare
di Umberto Bottazzini
«Quando ho visto che Lei rivolge la sua obiezione contro la dimostrazione più importante della teoria, che mi è costata fiumi di sudore, mi sono spaventato non poco poiché so che Lei padroneggia queste cose matematiche molto meglio di me». È un allarmato Einstein quello che il 5 marzo 1915 così risponde a Tullio Levi-Civita, il matematico padovano che gli ha comunicato un errore nella dimostrazione di un teorema che lo stesso Einstein riconosce essere fondamentale per la teoria della relatività generale che sta elaborando. Nondimeno, «dopo un’attenta riflessione – continua fiducioso Einstein – ritengo tuttavia di poter mantenere in piedi la mia dimostrazione».
Di che si tratta? Dopo la pubblicazione nel 1905 del celebre articolo sulla teoria della relatività, ristretta ai soli moti relativi uniformi, da diversi anni Einstein ha cominciato a riflettere sul modo di estendere la sua teoria a qualunque moto generico. «L’idea decisiva», dirà in seguito, gli è stata suggerita dall’«analogia tra il problema matematico della teoria [della relatività generale] e la teoria gaussiana delle superfici». Lasciata Praga per Zurigo nel 1912, con l’aiuto di Marcel Grossmann, amico e collega al locale Politecnico, si familiarizza con la geometria differenziale di Gauss e Riemann e studia il calcolo tensoriale, o calcolo differenziale assoluto come si chiama all’epoca il calcolo elaborato da Ricci-Curbastro, maestro di Levi-Civita a Padova.
Nel 1913 appare il primo frutto del lavoro comune di Einstein e Grossmann, un abbozzo (Entwurf) di una teoria della relatività generale e della gravitazione, in cui Grossmann fornisce l’apparato matematico, ossia le definizioni e gli elementi essenziali del calcolo differenziale assoluto, a sostegno delle idee fisiche di Einstein. I metodi e le applicazioni di quel calcolo sono stati presentati da Levi-Civita e Ricci-Curbastro in un articolo del 1901 che ha fatto epoca. Poincaré ha scritto una volta che nelle scienze matematiche una buona notazione ha la stessa importanza filosofica di una buona classificazione nelle scienze naturali, ricordano Ricci e Levi-Civita in apertura del loro lavoro. «A maggior ragione, si può dire altrettanto dei metodi» che «hanno origine e ragion d’essere negli intimi rapporti che li legano alla nozione di varietà a n dimensioni che dobbiamo al genio di Gauss e di Riemann».
Quell’articolo è un sistematico compendio di metodi, accompagnati dalle numerose applicazioni alla fisica matematica che Levi-Civita padroneggia in maniera magistrale. Professore di meccanica razionale a soli 24 anni, delle sue grandi qualità il matematico padovano ha dato prova in una serie di contributi nei campi più diversi – dalla teoria degli infinitesimi alla teoria degli invarianti, alla meccanica analitica al problema dei tre corpi – che, a neppure trent’anni, ne fanno uno dei più geniali e poliedrici matematici del tempo.
Sono queste le «cose matematiche» cui allude Einstein in quella sua prima lettera a Levi-Civita, che segna l’inizio di una fitta corrispondenza tra Padova e Berlino, dove nel frattempo si è stabilito il grande fisico. «Una corrispondenza così interessante non mi era ancora capitata» confessa Einstein al matematico italiano il 2 aprile. «Dovrebbe vedere con quale ansia aspetto sempre le sue lettere». E ne ha ben donde. Einstein cerca infatti ogni volta di controbattere con nuovi argomenti, e di mettere così la sua dimostrazione al riparo dalle reiterate critiche di Levi-Civita («mi accorgo dalla sua cartolina del 2 aprile che Lei insiste nella sua obiezione... cercherò di confutarla» o ancora il 21 aprile «Lei ritiene ancora che il Teorema non sia valido. Io spero però che la lettera che Le ho inviato ieri La convinca») finché il 5 maggio, alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia, in una lettera che chiude quell’intenso carteggio Einstein è costretto a riconoscere che Levi-Civita ha ragione: «la mia prova è incompleta» e una proprietà essenziale è solo congetturata ma «non è dimostrata».
Inizia allora per Einstein il periodo di duro, solitario lavoro che nel giro di qualche mese lo porta a stabilire la forma corretta delle equazioni gravitazionali che egli presenta all’Accademia delle Scienze di Berlino in una nota del novembre 1915. «Le equazioni gravitazionali rappresentano un vero trionfo dei metodi del calcolo differenziale assoluto», riconosce allora Einstein. «La nuova relatività fu costruita un po’ a tentoni fra il 1913 e il 1915», dirà Levi-Civita anni dopo scrivendo al fisico Augusto Righi, che gli chiede lumi sulla teoria einsteiniana. «Come Ella ben sa, lo strumento analitico essenziale di questa teoria è il calcolo differenziale assoluto del Ricci». Levi-Civita tace sul proprio ruolo decisivo. Ma altrettanto decisivo, e stavolta pubblico, è un articolo scritto nel novembre 1916 destinato ad esercitare un’enorme influenza sugli sviluppi della teoria della relatività generale e della moderna geometria differenziale, nel quale egli definisce il significato di parallelismo e di «trasporto parallelo» in uno spazio a n dimensioni, mettendo in luce le intime connessioni tra parallelismo in una varietà e tensore di curvatura di Riemann.
Con quel lavoro si chiude il periodo padovano, la stagione più originale e feconda di Levi-Civita, ma non si esaurisce certo il suo interesse per la teoria della relatività generale oggetto di una quarantina di suoi scritti. Chiamato all’Università di Roma nel dicembre 1918, Levi-Civita è un’autorità riconosciuta a livello internazionale, che le leggi razziali del 1938 costringono al silenzio minandone in maniera fatale la salute e lo spirito, fino alla morte nel 1941.
A cent’anni di distanza dalla redazione di quel fondamentale lavoro sul trasporto parallelo l’Università di Padova ha deciso di onorare il suo antico studente e geniale maestro intitolando a Tullio Levi-Civita il Dipartimento di matematica con una cerimonia che si svolgerà la mattina del 25 novembre nell’Aula Magna del Palazzo del Bo (vedi http://www.math.unipd.it/it/news/?id=1929).
Il Sole Domenica 20.11.16
Nobel per la medicina
Cellule al controllo qualità
Premiate le ricerche sull’autofagia che entra in gioco nella dinamica di patologie complesse come la distrofia
di Gilberto Corbellini e Mario Molinaro
La recente assegnazione del Nobel per la Medicina a Yoshinori Oshumi ha premiato un campo di ricerche straordinario per interesse fisiologico e patologico. L’autofagia è un controllo di qualità delle componenti cellulari e consiste nella degradazione di proteine e organelli intracellulari, ad esempio mitocondri danneggiati, tramite strutture degradative specializzate, autofagosomi e autolisosomi. I prodotti di degradazione sono riutilizzabili nei processi biosintetici, consentendo di compensare fasi di carenze nutritive. Disfunzioni dell’autofagia causano accumuli di aggregati proteici, prodotti tossici, radicali liberi, che alterano l’equilibrio omeostatico cellulare, in particolare la funzionalità delle cellule staminali. Vediamo come entra in gioco nelle dinamiche patologiche delle malattie complesse.
Le malattie degenerative sono patologie multifattoriali dipendenti da mutazioni in più geni concorrenti, anche presenti in cellule diverse. Alterazioni genetiche sono riscontrate anche nel microambiente o nicchia entro cui la cellula trova la sua naturale situazione operativa e nella sostanza extracellulare che organizza il tessuto e trasmette alla cellula, oltre ai nutrienti, segnali molecolari di origine locale o provenienti dal sistema circolatorio. Alterazioni di questo tipo, associate a difetti dell’autofagia, sono riscontrabili in malattie neurodegenerative, nelle distrofie muscolari, in patologie regressive, come l’invecchiamento e sono oggetto di interesse crescente, non solo conoscitivo, ma anche applicativo, trattandosi di malattie poco curabili. L’obiettivo è svelare quali vie ed equilibri metabolici siano direttamente o indirettamente colpiti dalle mutazioni, nell’ipotesi che attivatori o inibitori siano noti o conoscibili e si possa quindi mettere a punto una terapia farmacologica, adiuvante o sostitutiva delle complesse terapie geniche o cellulari.
Nella distrofia muscolare di Duchenne, per esempio, la delezione della proteina distrofina causa scompaginamento del sistema citoscheletrico, di cui è parte, che non riesce più a svolgere la funzione di ammortizzatore del trauma meccanico fisiologico prodotto dalla contrazione. L’effetto è un grave danno tessutale già nei primi anni di vita. Nuovi studi hanno evidenziato squilibri di vie enzimatiche attivate da recettori localizzati sulla superficie cellulare, a loro volta attivati da segnali molecolari extracellulari. Questi recettori trasmettono segnali di controllo della replicazione delle cellule staminali satelliti, residenti nel muscolo, per cui la loro alterazione causa replicazioni anomale e ostacola il rinnovamento tessutale.
Il quadro patologico della distrofia muscolare appare dipendente da due principali meccanismi concomitanti: il danno prodotto alla fibra dalla contrazione e d’altra parte l’incapacità della cellula satellite a produrre nuove cellule riparatrici del danno. Quale possa essere la rilevanza rispettiva dei due meccanismi nel determinare il fenotipo distrofico è stata in parte chiarita recentemente. In un ceppo di animali distrofici alcuni individui presentavano normale funzionalità muscolare e durata della vita, pur in assenza di distrofina e con danni strutturali tipici della malattia. Il recupero della attività muscolare risultava dovuto a una mutazione, con guadagno funzionale, di un gene che attiva un recettore della membrana cellulare il cui compito è regolare un meccanismo replicativo delle cellule staminali. Queste normalmente si trovano in stato di riposo o quiescenza reversibile. Ma sono in grado di attivarsi in risposta a segnali che rilevano per esempio un danno tessutale, proliferando e differenziando. Una parte minoritaria delle cellule, per azione del recettore, segue però un percorso diverso, torna quiescente. Questo un meccanismo di automantenimento garantisce l’equilibrio del compartimento staminale nel corso della vita. Se la quiescenza è impedita per inattività del recettore, le cellule staminali si vanno esaurendo, l’arresto replicativo diviene irreversibile ed entrano in fase di senescenza.
L’autofagia è un regolatore fondamentale della staminalità, particolarmente della fase di quiescenza e del reingresso nel ciclo replicativo. In assenza di autofagia si ha la trasformazione della quiescenza in senescenza irreversibile. Il rinnovamento tessutale appare pertanto condizione indispensabile per prevenire patologie regressive. Ricerche finalizzate ad attivare il rinnovamento tessutale sono in corso anche nelle malattie neurodegenerative, mediante l’utilizzo di strategie di sostituzione dei neuroni colpiti con nuovi precursori neuronali embrionali o indotti da cellule staminali adulte di altro tipo, dato che cellule staminali nervose sono inesistenti nell’adulto o molto rare, o anche mediante riprogrammazione diretta di cellule somatiche in neuroni. Nella distrofia muscolare nuovi dati sottolineano l’importanza delle corrette interazioni tra cellula ed ambiente extracellulare, fortemente disorganizzate per l’assenza di distrofina e per le alterazioni dell’apparato citoscheletrico, struttura di collegamento tra citoplasma e superficie.
Una ricerca pubblicata sul numero di agosto di «Nature Medicine» da ricercatori della Johns Hopkins University dimostra in animali distrofici alterazioni di un recettore della superficie cellulare, l’integrina, e disorganizzazione della sostanza extracellulare. L’integrina ha la funzione di legarsi a componenti molecolari della sostanza extracellulare e a fattori di crescita ivi presenti. A seguito del legame invia segnali che stimolano la replicazione delle cellule satelliti. L’interruzione di questo percorso di segnalazione provoca esaurimento delle cellule satelliti e l’arresto del rinnovamento tessutale. I ricercatori hanno somministrato agli animali un anticorpo che attiva il recettore integrinico, un analogo dei suoi attivatori fisiologici, ripristinandone la funzionalità e con essa la corretta replicazione delle cellule satelliti. Si è osservata la rigenerazione e la funzionalità muscolare.
Nell’invecchiamento gli autori riscontrano alterazioni simili che portano al quadro patologico della atrofia muscolare senile o sarcopenia. L’anticorpo attivante ripristina anche in questo caso il quadro normale. Un altro studio ha identificato nella fibronectina la molecola della sostanza extracellulare che consente l’attivazione del recettore integrinico. Questa molecola decresce nell’invecchiamento causando la riduzione del segnale, la sua inoculazione nel muscolo dell’animale o la sua aggiunta al terreno di cellule muscolari in coltura, fa regredire il fenotipo senile; viceversa la delezione sperimentale della fibronectina induce il fenotipo senile in cellule muscolari giovani.
I risultati ottenuti sul modello sperimentale murino non sono direttamente trasferibili a quello umano e non è chiaro se la riattivazione replicativa di cellule satelliti esauste possa persistere nel lungo periodo. Secondo queste ricerche le patologie regressive su base genetica o acquisite nel corso dell’invecchiamento si manifestano attraverso meccanismi patogenetici simili, in particolare l’inadeguatezza replicativa della cellula staminale e la profonda alterazione della rigenerazione del tessuto. Un possibile fattore causale è la interruzione della sorveglianza autofagica endocellulare e delle vie di comunicazione tra cellula e ambiente pericellullare , extracellulare e organismico, suggerendo interessanti sviluppi conoscitivi e terapeutici.
S. Grealish et al.,Brain repair and reprogramming: the route to clinical translation , in J. Internal Medicine, Sept. 2016, vol.280, 265-275
il manifesto Alias 20.11.16
Se il senso cambia pelle
Psicoanalisi. Un saggio di Romano Madera dedicato al fondatore della psicologia analitica: "Carl Gustav Jung", da Feltrinelli
di Paulo Barone
Come seguire i continui mutamenti che rimodellano senza sosta il volto della società contemporanea e dare conto dei lineamenti sempre più sfuggenti e dei modi di vivere spesso indecifrabili e sconclusionati che la caratterizzano? Come avere il polso della corrente di infelicità e di misfatti, di sogni e nostalgie che scorre sotto la superficie dei suoi comportamenti per cogliere, al di là di essi, il tratto saliente che li unifica e la vocazione di fondo che potrebbe ispirarli? Come farsi un’idea, insomma, del tempo presente, del tempo in cui viviamo?
Sino a un passato non lontano si poteva ancora esser certi che domande del genere avrebbero trovato, prima o poi, delle risposte adeguate, che lo sforzo impiegato per cercarle sarebbe stato infine coronato da successo. Oggi, al contrario, sperimentiamo non solo che le risposte mancano del tutto, ma che il domandare stesso è diventato superfluo: il nostro tempo – forse per la prima volta nel corso della storia – potrebbe risultare privo di qualunque idea o immagine di fondo che lo orienti, e dunque ritrovarsi stordito, inconsistente, letteralmente insensato. Proprio intorno alla questione della sparizione di senso dalla scena contemporanea, dei guasti che ne derivano, della necessità di ripristinarne la ricerca , ma, insieme, dei limiti invalicabili con cui quest’ultima si scontra, ruota il recente Carl Gustav Jung di Romano Màdera (Feltrinelli, pp. 160, euro 14,00).
La sua scelta di rifarsi – con Jung – alla psicoanalisi per seguire le vicissitudini del senso è più che pertinente. La nozione di inconscio con cui la psicoanalisi si qualifica emerge infatti nel mezzo di una precisa frattura storica, al termine cioè di quel processo di erosione con cui la Modernità si sbarazza di tutti i vincoli mitici, magici, religiosi, soprannaturali che regolavano invece i modi di vivere delle società tradizionali.
L’inconscio è innanzitutto il risultato e il sintomo storico di questo sgretolamento, il «prezzo del progresso», l’equivalente moderno dei vincoli antichi andati in frantumi, la nuova oscurità che vela la luce della ragione e scinde il profilo dell’Io. Ecco perché, ben prima di costituire la parola d’ordine di un sapere specialistico divenuto via via più o meno competente, l’inconscio resta il cristallo in cui si riflette una svolta epocale – la tradizione che si spezza – nonché una delle più efficaci lenti d’ingrandimento attraverso cui osservarla. È qui che, ricorda Màdera, il senso cambia pelle. Non si può più accedervi uniformando la propria condotta a quella di un modello esemplare, restando nell’anonimato e «imitando» la via seguita da un altro, come nel passato. Ciascuno adesso è chiamato per nome a trovare da sé la propria via, il proprio senso.
Màdera mostra bene come sia Freud che Jung accolgano questa ingiunzione, benché sia Jung a trarne le conseguenze più radicali: con la «morte di Dio» l’inconscio per Jung non è solo il deposito che ne raccoglie le scorie, ma soprattutto il luogo in cui torna libera l’energia incandescente e misteriosa che l’immagine storica del dio unico prima incorporava. Sprigionata, tale energia è ora variazione, diversificazione continua: preme direttamente nelle vite dei singoli, reclama di essere realizzata e riconosciuta individualmente, intima a ognuna di «seguire il battito del proprio cuore». Dare ascolto a questo appello sarebbe la sola cura per la nostra intera «civiltà in transizione».
Le condizioni attuali sembrano però averla resa quasi del tutto impraticabile. A Màdera, come ad altri, pare che la «clinica dell’individuazione» si scontri ormai con l’amorfo, caotico impasto sociale prodotto dal capitalismo globale. Invece che individui riunificati – cioè alla lettera, sottolinea Màdera, in-dividui, in-divisi – finalmente in cerca del proprio senso, ci troveremmo di fronte individualisti atomizzati, ripiegati narcisisticamente su di sé. Ciò che rimane tuttavia inspiegato in queste letture è come il medesimo processo storico sia, al contempo, quello che promuove le mille voci soggettive e quello che produce il loro doppio deforme e aberrante.
Del nostro tempo ci viene così restituita una dolente immagine scissa, spaccata in due: e poiché questo è il tempo in cui viviamo, anche un’immagine scissa di noi stessi, dove non possiamo dirci individui senza sospettare di essere, insieme, un po’ atomi – termine che paradossalmente significa, anch’esso, in-divisi. Eppure da tempo la modernità del Capitale – non potendo prescindere dal suo presupposto di avere a disposizione sempre e solo risorse inesauribili – è entrata in un vicolo cieco, popolato via via da figure di cui non sa venire a capo, perché appunto figure esaurite, dal senso esausto, dai tempi morti. C’è da chiedersi se non occorra rivolgere con più fiducia la dovuta attenzione a queste figure impossibili e impensate per riannodare i lembi della scissione, abbandonando entrambi i termini, individuo e atomo, che la mantengono ancora in vita.
il manifesto Alias 20.11.16
Leo Strauss a confronto con Spinoza
Filosofia. Dall'ermeneutica dei testi biblici ai suoi riverberi etici e politici: un saggio da Mimesis
di Alberto Gaiani
Sulla soglia della catastrofe perpetrata dal nazionalsocialismo tedesco, negli anni venti del Novecento l’ebraismo europeo diede contributi importantissimi al dibattito filosofico contemporaneo: in un breve lasso di tempo furono pubblicati La stella della redenzione di Franz Rosenzweig (nel 1921), Io e tu di Martin Buber (nel 1923), Il dramma barocco tedesco di Walter Benjamin (nel 1928), solo fermandoci a tre esempi celeberrimi: fu una sorta di età dell’oro della filosofia ebraica, espressione peraltro problematica e controversa, contestata da molti interpreti.
In questo ambiente, proprio a partire dagli anni venti compiva i primi passi Leo Strauss, che emigrato poi in Inghilterra e di seguito negli Stati Uniti, sarebbe divenuto uno dei massimi filosofi della politica contemporanea. Prima dei capolavori della maturità sulla scrittura reticente e sul recupero dell’antichità greca e ebraica, i suoi saggi giovanili ruotavano intorno agli studi su Spinoza: tre di questi testi sono stati da poco pubblicati per la prima volta in italiano da Mimesis, per la cura di Riccardo Caporali e la traduzione di Enrico Zoffoli con il titolo Il testamento di Spinoza (pp. 92, euro 12,00).
L’aspetto che balza subito agli occhi leggendo questi studi di Strauss è la polemica contro Hermann Cohen – la massima autorità degli studi ebraici primonovecenteschi, oltre che uno dei fondatori del neokantismo – che attaccava la scienza biblica di Spinoza accusandolo di mascherare il risentimento dietro a una pretesa scientificità dell’esegesi del testo sacro. Strauss difende l’ermeneutica spinoziana sia sul piano metodologico, cercando di far valere l’interpretazione storico-critica inaugurata da Mommsen («non è consentito appellarsi a motivi “egoistici” nella misura in cui risultano sufficienti i motivi “debiti”»), sia sul piano dei contenuti, mostrando come la concettualità dispiegata nel Trattato teologico-politico sia ovviamente discutibile, ma salda, logicamente coesa, per nulla peregrina o viziata da idiosincrasie estemporanee.
Tuttavia, in questi scritti di Strauss emergono anche altri elementi, che poi saranno sviluppati nella sua opera matura e che troveranno ampia eco anche al di fuori e indipendentemente dalla sua opera. Il problema dell’interpretazione testuale – a maggior ragione nell’ambito della religione del testo per antonomasia – non è un puro problema ermeneutico: diviene giocoforza un problema etico, e quindi assume una dimensione politica.
Lettura, comprensione e interpretazione non sono esercizio di comprensione fine a sé stesso, ma ci chiamano a esplicitare quel che pensiamo della realtà, di come è fatta, di quale ruolo occupiamo al suo interno, di quali principi guidano le nostre azioni. In gioco, sostiene Strauss, è il rapporto dell’uomo con la verità. Sulla scorta di Spinoza, la posizione di Strauss è chiarissima: «La verità può essere solo saputa, non creduta. L’uomo la conosce solo se la comprende – in caso contrario, si limita a dar voce a parole».