Repubblica Cult 13.11.16
I tabù del mondo
Se la preghiera non è solo una illusione
Per
Freud la religione è il delirio dell’umanità che vorrebbe un padre
capace di proteggere la vita. Per Fromm è una fuga dall’angoscia della
libertà. Ma avere fede non vuol dire semplicemente affidare se stessi
all’onnipotenza dell’Altro. È anche il segno di chi non rinuncia alla
sconfitta e alla caduta
Secondo Parmiggiani l’arte ha la stessa
origine: sorge dalla spinta a riconoscere la propria fragilità ed
esposizione all’apertura misteriosa del mondo
di Massimo Recalcati
Il
nostro tempo sembra avere ridotto la preghiera ad una pratica
superstiziosa. La cultura dei lumi ha emancipato l’uomo da pratiche
rituali irrazionali nel nome del primato della ragione critica. Se la
preghiera è divenuta un tabù è perché l’uomo religioso è stato
finalmente smascherato come una menzogna. Anche la psicoanalisi ha
contribuito a liberare l’umanità dalle illusioni della religione. Paul
Ricouer accomunava i nomi di Marx, Nietzsche e Freud sotto il segno
della “scuola del sospetto”. Gli Ideali – innanzitutto quelli che
animano ogni credenza religiosa – sono idoli di carta che nascondono una
radice oscena: la religione serve a drogare gli individui e i popoli
alimentando la fede illusoria di un mondo dietro al mondo, per
costringerli a subire passivamente le ingiustizie di questo mondo. Le
analisi che Freud dedica all’uomo religioso appaiono esemplari: la
religione è un delirio dell’umanità che vorrebbe restaurare un padre
ideale (Dio) capace di proteggere e consolare la vita umana bisognosa di
soccorso. Fromm ha prolungato le ricerche di Freud giungendo a
teorizzare la religione come forma maggiore della fuga dell’uomo dalla
angoscia della libertà per gettarsi nelle braccia di una autorità
salvatrice. Nella preghiera tutti noi torniamo ad essere bambini
impauriti che affidano le sorti incerte delle loro vite ad un padre
rassicurante. Ma siamo certi che la preghiera sia solo un fenomeno
regressivo, superstizioso, irrazionale? Si tratta solo di un modo per
negare la forza amorale della pulsione, come ritengono Nietzsche e
Freud? E se invece esistesse una forza pulsionale propria della
preghiera?
Non dovremmo essere troppo rapidi nel liquidare la
spinta umana verso la preghiera. Essa mette innanzitutto in luce che
ciascuno di noi viene al mondo marcato da una insufficienza e da una
lesione fondamentale che lo sospinge verso l’appello ad una forma
invisibile di alterità. La preghiera, come del resto l’evento stesso
della parola, è alla sua origine un’invocazione rivolta all’Altro. Per
il pittore Claudio Parmiggiani l’arte stessa avrebbe questa origine
mitica: sorge dalla spinta degli uomini a pregare, ovvero a riconoscere
la loro fragilità costitutiva e la loro esposizione all’apertura
misteriosa del mondo. Ma la preghiera non è solo una forma radicale di
appello – di invocazione –, ma può anche essere l’espressione di una
forza. È quello che racconta con delicatezza struggente il bel film di
Alajandro Gòmez Monteverde titolato Little boy (2015). È una storia
ambientata in un paesino degli Stati Uniti affacciato sull’oceano al
tempo della seconda guerra mondiale. Il protagonista è un bambino di
otto anni dall’aspetto gracile che aveva un rapporto speciale con il
proprio papà nutrito di fantasie condivise. Il padre insegna al figlio
il potere “magico” della fede attraverso la passione per un personaggio
dei fumetti. Nel 1941 molti riservisti vengono richiamati alle armi, tra
i quali il padre del bambino. Questo getta Little Boy nella
disperazione. Egli diviene una sorta di piccolo Telemaco che attende con
speranza e angoscia il ritorno del padre. Ma il bambino, come il
Telemaco di Omero, non si accontenta di attendere passivamente. Vuole
fare qualcosa per rendere possibile questo evento. Incontra allora il
parroco del paese che lo introduce alla preghiera e alla penitenza in
modo che la sua richiesta possa attirare l’attenzione di Dio. Il bambino
assolve a tutte le prescrizioni necessarie senza che però questo renda
possibile l’esaudimento della sua richiesta. Nondimeno la sua tenacia
non è intaccata: egli si reca con la sua bicicletta al molo e di fronte
all’orizzonte aperto dell’oceano invoca il ritorno del padre. Lo fa
senza genuflettersi, né tenendo le mani giunte, ma ponendole come il suo
idolo dei fumetti gli aveva insegnato. Dobbiamo immaginare Little Boy
di fronte all’oceano, ogni giorno, con costanza e dedizione, tendere le
proprie manine nella posizione insegnata dal suo eroe per rendere
possibile il ritorno del padre. Presto al paese verrà riconosciuto da
tutti come il “bambino della fede” sebbene, nonostante la sua devozione
amorevole, giunga la notizia della morte del padre in un campo di
prigionia giapponese. La disperazione del figlio fortunatamente durerà
poco. Uno scambio di identità ha confuso il cadavere di un altro soldato
americano con il padre. Il figlio potrà così ritrovare il padre sebbene
traumatizzato dall’orrore della guerra. Cosa insegna sull’essenza della
preghiera la storia di Little Boy? La preghiera non è solo
l’affidamento passivo e regressivo di se stessi all’onnipotenza
dell’Altro. Essa può essere anche il gesto di chi non vuole rinunciare
alla sconfitta e alla caduta. Una forma radicale di resistenza alla
sventura. Little Boy crede in Dio, pensa che Dio possa davvero
rispondere alle sue preghiere? Probabilmente no, ma non è questa la
domanda decisiva. Little Boy ha imparato dal padre che la fede può
spostare davvero le montagne, che non è una semplice superstizione, ma
una forza che trasporta e dà senso alla vita. È il granello di senape
che, come gli ricorda il parroco, appare nei Vangeli simile al regno di
Dio: un granellino che genera il più grande di tutti gli arbusti. È
questo il punto dove le acque del desiderio e quelle della fede si
mescolano. Il “bambino della fede” è il bambino che non vuole lasciare
cadere il ricordo del padre nel nulla, ma che lo sa onorare con la forza
della sua nuda fede.