Il Sole Domenica 13.11.16
Come si misura la coscienza
C’è
chi lo ha definito «il più profondo dei misteri scientifici», ma è a
portata di mano di alcuni ricercatori, tra cui l’autore di questo
articolo
di Giulio Tononi
L’anno scorso
l’«Economist», in una sezione speciale dedicata ai più grandi problemi
scientifici irrisolti, terminò la rassegna con la coscienza: «il più
profondo di tutti i misteri scientifici». La coscienza sembra persino
più enigmatica dell’origine dell’universo - secondo molti non sappiamo
nemmeno da dove cominciare. E invece che poterci giustificare con
l’impossibilità pratica di andare indietro nel tempo o di passare da un
universo all’altro, la coscienza è letteralmente a portata di mano: un
pugno ben assestato che sconquassi il cervello e la coscienza scompare
del tutto. Una fiala di anestetico in vena e ciascuno di noi si spegne
nel nulla – letteralmente cessiamo di esistere. E ogni sera, quando
cadiamo addormentati di un sonno profondo, svaniscono improvvisamente
spazio, tempo, pensieri, forme, colori, suoni, sentimenti ed emozioni –
svanisce tutto, noi stessi, il nostro mondo, l’universo intero. Per
ritornare altrettanto improvvisamente quando sogniamo o quando ci
svegliamo.
Sappiamo bene, ormai, che la coscienza dipende dal
cervello, che è una macchina biologica complicata. È fatto di materia
che non ha nulla di misterioso: come il cuore, il cervello è fatto di
miliardi di cellule specializzate a condurre impulsi elettrici. Non
solo. Ormai abbiamo apparecchi sempre più potenti per guardare dentro il
cervello, scoprire come è organizzato, regione per regione, cellula per
cellula, e stabilire come ogni neurone è collegato ad altri neuroni,
sinapsi per sinapsi. E siamo sulla buona strada per capire come funziona
– come può distinguere una faccia dall’altra, come può immagazzinare
memorie, e come controlla il movimento. Si tratta di funzioni
complicate, ma che non pongono problemi insuperabili, tanto che stiamo
costruendo macchine capaci di eseguirle quanto o meglio di noi.
Eppure,
come dai neuroni si sprigioni l’esperienza soggettiva – il colore del
cielo e la felicità di un tramonto – come «l’acqua del cervello si
trasformi nel vino della coscienza» sembra davvero un miracolo
inspiegabile. Il filosofo David Chalmers lo ha chiamato «The hard
problem» (il problema difficile) per antonomasia perché sembra
impossibile anche solo immaginare una soluzione. Più studiamo, più la
coscienza appare misteriosa. Per esempio, il cervelletto contiene più
della metà degli 86 miliardi di neuroni del cervello, ma anche se si
asporta chirurgicamente continuiamo ad essere coscienti come prima.
Perché? E perché l’esperienza svanisce durante il sonno profondo, anche
se i neuroni continuano ad essere attivi? O ancora, sono coscienti gli
animali? Cosa si prova a essere un pipistrello, come si chiese un altro
filosofo, Thomas Nagel, concludendo che la scienza non potrà mai darci
una risposta? Si prova qualcosa a essere un polpo o una mosca? Quanto
noi? Meno di noi? E un calcolatore che sapesse riprodurre in tutto e per
tutto il nostro comportamento, sarebbe cosciente?
Nonostante lo
scetticismo che per una volta accomuna filosofi e scienziati, rispondere
a queste domande non è necessariamente fuori dalla portata della
scienza. La teoria dell’informazione integrata (IIT) mira precisamente a
spiegare che cos’è la coscienza, a caratterizzare i requisiti dei
sistemi fisici che la rendono possibile e a misurarne la quantità e la
qualità. L’approccio consueto - studiare le caratteristiche del cervello
e cercare di derivarne in qualche modo l’esperienza soggettiva, ossia
andare dalla fisica alla fenomenologia - si scontra inevitabilmente con
l’hard problem.
IIT rovescia i termini della questione, andando
dalla fenomenologia alla fisica: invece di partire da come è fatto il
cervello o dalle funzioni che svolge, IIT comincia con l’identificare le
proprietà essenziali della coscienza stessa per derivarne i requisiti
necessari e sufficienti perché un substrato fisico renda possibile
l’esperienza soggettiva. Le proprietà essenziali della coscienza – vere
di ogni esperienza concepibile - sono cinque: l’esperienza esiste
intrinsecamente (per il soggetto, non per un osservatore esterno); è
strutturata (è composta di svariati contenuti e delle loro relazioni);
informativa (ogni esperienza è specifica - quella che è, pertanto
diversa da innumerevoli altre); integrata (una e irriducibile); definita
(ha i contenuti che ha, nulla di meno e nulla di più).
Queste
cinque proprietà essenziali della fenomenologia sono tradotte da IIT nei
cinque requisiti fisici che devono essere necessariamente soddisfatti
da qualsivoglia substrato fisico della coscienza. Dove per “fisico” si
intende, in modo del tutto generale, qualunque substrato che abbia
potere causale – ossia che possa essere manipolato od osservato,
direttamente o indirettamente - dal cervello ai neuroni alle particelle
elementari.
A tutto questo, IIT dà una veste matematica, arrivando
a una formulazione precisa: il substrato fisico della coscienza deve
essere un massimo globale di potere causale intrinseco, composizionale,
specifico e irriducibile. Non è possibile spiegare adeguatamente in
poche righe cosa significhi quest’espressione convoluta, né come IIT ne
deduca la qualità dell’esperienza (ha a che fare con la struttura del
potere causale che compone l’informazione integrata).
Conviene
sottolineare, peraltro, che IIT è l’antitesi del riduzionismo: persino
l’unità di misura fondamentale di informazione integrata, Phi, è una
misura di irriducibilità, che indica se e quanto il tutto non possa
essere ridotto alle sue parti. Una delle conseguenze della teoria è
proprio che la coscienza in linea di principio è misurabile: tanto più
alto il valore di informazione integrata Phi, tanta più coscienza. La
teoria si può quindi mettere alla prova dei fatti. Così è stato
sviluppato un “coscienziometro”, per quanto ancora primitivo, che
utilizza uno stimolatore magnetico transcranico e un gran numero di
elettrodi per leggere l’integrazione dell’informazione dalle risposte
del cervello.
Per quanto grossolana, la stima di Phi così ottenuta
funziona: come dimostrato dal gruppo di Marcello Massimini a Milano e
altri collaboratori, è attualmente il miglior indice clinico per
valutare il livello di coscienza in pazienti con gravi lesioni
cerebrali, e funziona anche nell’anestesia generale e nel sonno. In
alcuni casi, la stima di Phi suggerisce che pazienti apparentemente
incoscienti perché rimangono immobili e non rispondono agli stimoli
possono ciononostante essere coscienti, come succede a tutti noi quando
sogniamo. In linea di principio, IIT può servire a stabilire se e quanto
siano coscienti animali diversi da noi, a chiarire perché la coscienza
si sia evoluta e a spiegare perché certe regioni della corteccia
cerebrale siano essenziali per la coscienza e altre no. Ciò è già chiaro
per il cervelletto: la ragione per cui non ha nulla a che fare con la
coscienza è che, nonostante il grandissimo numero di neuroni, è
organizzato in moduli separati che impediscono l’integrazione
dell’informazione.
Per finire, la teoria ha implicazioni
importanti per l’intelligenza artificiale, che sta creando sempre più
freneticamente nuove macchine capaci di uguagliare e persino superare le
nostre capacità cognitive. Eppure, secondo IIT, anche se un domani un
calcolatore fosse in grado di replicare perfettamente tutte le funzioni
cognitive di una persona cosciente, magari con una precisa e dettagliata
simulazione di ogni neurone del suo cervello, non potrebbe essere
cosciente - anche se citasse Dante e fischiettasse Verdi, sarebbe
letteralmente solo una macchina che recita una parte, senza avere né
esperienza soggettiva né libero arbitrio; una macchina che esiste per
noi, osservatori esterni, ma non per sé stessa, dall’interno. La ragione
per cui un calcolatore con un’architettura tradizionale (alla von
Neumann, ossia praticamente tutti i calcolatori esistenti) non potrà mai
essere cosciente segue direttamente da IIT: l’architettura di un
calcolatore non può supportare un massimo globale di potere causale
intrinseco e irriducibile. Il che pone varie questioni etiche. Anche se
un calcolatore del genere, al comando di un corpo adeguato, potesse
incantarci quanto e meglio del più affascinante dei nostri simili,
nell’aspetto e nel comportamento, nell’intelligenza e nei sentimenti,
come suggerito da film e sceneggiati, IIT dice altrimenti: dietro occhi
seducenti ed espressivi non ci sarebbe assolutamente niente – il vuoto
dell’incoscienza. E se tali macchine prendessero il sopravvento, il
mondo diventerebbe, nelle parole del grande fisico quantistico Erwin
Schrödinger «una recita davanti a un teatro vuoto» – un teatro di
marionette per marionette. Perché fare non è essere, ed essere è essere
coscienti.