mercoledì 9 novembre 2016

Repubblica 9.11.16
La lingua dell’odio
di Nadia Urbinati

C’È UN luogo comune sull’America che è rimbalzato nei media tradizionali e sui social media in queste settimane: a fronte dei colpi bassi tra i candidati e degli scandali, svelati o annunciati addirittura da agenzie pubbliche come l’Fbi, cadono i miti sull’America delle regole e della democrazia. Un luogo comune che non coglie nel segno perché non è una novità che la politica americana superi l’immaginazione quanto a spietata durezza.
La storia americana è scandita dall’uso di colpi bassi e di violenza in politica: omicidi di presidenti (a partire dal grande Lincoln fino al giovane Kennedy) e candidati (l‘ultimo Robert Kennedy), scandali che hanno fatto cadere presidenti (Nixon), campagne dal linguaggio populista violento e razzista (del democratico Wallace), infine finanziamenti miliardari alle campagne elettorali che servono addirittura a misurare il gradimento dei candidati, per cui chi è semplicemente “popolare” non ha nei fatti le stesse possibilità di vincere di chi ha dalla propria le multinazionali e le oligarchie di partito (un tema che Bernie Sanders ha più volte sollevato nelle primarie contro Hillary Clinton). Insomma, l’America è ammirevole non per la sua purezza ma per l’esplicita confessione delle impurità della politica e per quella straordinaria forza delle istituzioni e dell’opinione che resistono a scandali e a violenze. Cinismo verso la politica e convinzione della rettitudine delle persone ordinarie: su questo dualismo si è costruito il mito del populismo americano “buono”, che mai ha tracimato dal regime costituzionale. L’immaginario di un eccezionalismo americano nella valutazione del populismo è durato almeno fino a Donald Trump.
La novità immessa nella politica americana — forse la maggiore novità — sta qui: nel fatto che gli americani, ultimi tra tutti i paesi democratici, abbiano scoperto che il populismo “cattivo” è possibile. Il “popolo” può essere personificato da un pessimo leader e identificato con un linguaggio fortemente negativo e negazionista: negativo, come in altri momenti del passato (pensiamo appunto a Wallace) e anche negazionista, come mai prima d’ora. Negazionismo: Trump ha dichiarato da settimane di poter negare il risultato di queste elezioni (se perdesse), perché esito di una campagna condotta in maniera fraudolenta sia da parte della candidata Hillary che da parte dei media liberal, e delle élites acculturate dei college Ivy.
Sugli “errori” di Hillary sappiamo: errori per aver usato, quando era segretario di Stato, telefoni pubblici e privati indifferentemente, senza fare distinzione tra le questioni personali e quelle politiche. Un errore di valutazione e il segno di un’abitudine al potere (che Hillary frequenta a vario titolo, privato e pubblico, da alcuni decenni), che non sembra aver tuttavia messo a repentaglio gli interessi nazionali. Ma a Trump importa poco il fatto materiale.
Il fatto nuovo di questa campagna è, come si diceva, un altro: Trump ha accusato ripetutamente i media “liberal” di aver fatto una campagna tendenziosa, di aver premeditato la disinformazione (lo ha ripetuto anche la moglie Melania in due interviste televisive)