mercoledì 9 novembre 2016

Corriere 9.11.16
«Siamo affascinati dall’arroganza imperiale»
Lo scrittore Lethem: «Un Paese sempre più diviso e disilluso. Ed è colpa delle élite»
intervista di Viviana Mazza

PALM BEACH (FLORIDA) Dieci anni fa lo scrittore Jonathan Lethem intervistò Bob Dylan, uno dei suoi miti, per la rivista Rolling Stone. E Dylan, scherzando, espresse ammirazione per Trump.
Ora l’uno ha vinto il Nobel per la Letteratura e l’altro conquista la Casa Bianca. «Credo che Dylan stesse cercando di dire una cosa assurda: si parlava del fatto che è un artista straordinario, e per non darsi troppe arie ha cominciato a elencare una lista di altri performer, una serie di nomi ridicoli, come Trump. Ma l’intuizione è che Trump è una persona legata allo show business, non un autentico politico (né un autentico miliardario). È un’idea, un cartone animato come Bugs Bunny. Trump è incapace di incarnare qualunque significato o valore, ma il fatto che le persone ne abbiano fatto il depositario dei loro autentici dolori e desideri è tragico, perché non potrà mai dar voce ad essi».
Lethem è l’autore di grandi romanzi newyorchesi (come Brooklyn senza madre e La fortezza della solitudine), ma anche di storie che attraversano i paesaggi del continente americano, raccontando una nazione costruita su una complessità (e a volte assurdità) infinita come nel suo ultimo libro uscito in Italia Alan, un uomo fortunato e altri racconti (Bompiani).
Come è possibile tanta disillusione, otto anni dopo Obama?
«È un fortissimo atto d’accusa contro i decenni di fantasie neoliberiste, e il fatto che abbiamo celebrato le élite, gli imprenditori e i vincitori del boom tecnologico e abbandonato le idee della vecchia sinistra. Sono stato commosso dal movimento Occupy e credo che abbia portato direttamente alla candidatura di Bernie Sanders. Dall’altra parte, il movimento popolare per Trump si è nutrito di ansie nazionaliste paranoiche: questa è una tragedia, ma è inevitabile per via dell’incuria delle élite neoliberiste».
Che cosa pensa di Hillary Clinton?
«Quest’elezione è diventata un’operazione di salvataggio. Non non si discute sulla bellezza del risultato simbolico che l’elezione di una donna avrebbe rappresentato: qualcosa di grandioso, ma insufficiente. Hillary è una figura strana, perché nella sua essenza e in una singola pennellata rappresenta una straordinaria incarnazione della libertà e delle possibilità ma al contempo ha vissuto nella difesa delle fantasie di Davos, concepite da miliardari che decidono per il mondo, senza alcun contatto con la base, con i lavoratori, con i movimenti di liberazione ai margini della cultura».
Che cosa pensa dell’«eccezionalismo» americano?
«Per tutta la vita ho sempre creduto che ci sia qualcosa di eccezionale nella storia americana. Eppure è diventata una licenza tossica, usata per evitare di discutere come dovremmo comportarci nella comunità internazionale. Sono orgoglioso dell’identità americana per via dell’arte e degli ideali di libertà incarnati da tanta parte della nostra cultura, ma continuando a brandire questa idea di eccezionalismo per non pagare le conseguenze delle nostre azioni è pericoloso».
In un appello contro Trump firmato con 400 scrittori lei critica la violenza fatta sul linguaggio nel nome del potere. Che cosa intende?
«Trump incanta perché incarna la noncuranza nei confronti della ragione, della civiltà, della logica. È una figura profondamente anti-intellettuale, e questo sdegno per le posizioni sfumate e l’esitazione non è una novità nella cultura americana. Siamo affascinati dall’arroganza imperiale, dalla certezza. George W. Bush aveva segnato il punto massimo, ora è stato sorpassato. È un problema che riguarda tutti noi, anche gli intellettuali si ritrovano a indulgere nel romanticismo degli impulsi, nell’individualismo da cowboy. Dobbiamo guardarci dentro anziché accusare Trump di avere inventato questo problema, lui è solo un sintomo».