il manifesto 9.11.16
Fare i conti con il trumpismo per capire l’era post-democratica
Cosa
c'è di nuovo in America. Continuerà a far discutere l’endorsement sul
web di Slavoj Žižek a Donald Trump come «fenomeno antisistema»
di Luca Celada
Los
Angeles Il voto di ieri ha espresso il verdetto degli americani sulle
elezioni più singolari nella storia recente del paese. Quelle che hanno
visto un corpo estraneo insinuarsi in un sistema politico parso
d’improvviso disperatamente anacronistico e in profonda crisi. Le
elezioni Usa del 2016 sono le ultime nell’ordine ad aver comprovato la
crisi fisiologica delle democrazie sotto il peso del liberismo
transnazionale che ha sconquassato le classi medie e lavoratrici ed
esautorato gli elettori.
L’ascesa «distopica» e post-politica di
Trump ha incarnato la reazione viscerale a un alienante ordine globale.
Proprio per questo è un errore leggerla come idiosincrasia americana.
Soprattutto nel continente che nell’arco di pochi mesi ha visto
barricate contro donne e bambini rifugiati, il trionfo isolazionista
della Brexit, vagoni piombati in Ungheria, le ascese di Viktor Orbán,
Marine Le Pen, Nigel Farage e Matteo Salvini e nelle frontiere sigillate
a Ventimiglia la pietra tombale di Schengen e del progetto comunitario.
Trump
probabilmente è più pericoloso di ognuno di questi aspetti ma il
rancore che ha fomentato nella rust belt deindustrializzata, la paura e
le divisioni come strumento demagogico legittimato dal trumpismo, è lo
stesso che oggi riverbera da Mosca all’hinterland padano, agli swing
states del Midwest. Quella che inizialmente, insomma, era parsa a molti
una anomalia da epoca reality o uno svarione destinato ad
autocorreggersi, è finito per rivelarsi sintomo di un fenomeno più
ampio, quella nuova era nazionalista in cui si possono annoverare anche
le prese di potere di Temer a Brasilia e Duterte a Manila.
Sfidando
i pronostici il populista post berlusconiano si è impadronito del
partito conservatore nazionale e ha trascinato la politica americana
fuori da ogni binario con una inquietante quanto efficace campagna
demagogica. I primi ad imparare a proprie spese la lezione sono stati i
repubblicani debellati come birilli nelle primarie da un candidato che
nel giro di poche settimane si è impossessato del Gop sotto gli occhi
increduli dell’establishment del partito.
L’esproprio è stato
sancito durante la convention dai sorrisi tesi all’interno del palasport
di Cleveland e dagli slogan nei comizi degli «insurrezionalisti» di
Trump all’esterno, quelli in cui il leader dei Bikers for Trump, Chris
Cox, mi assicurava che a gennaio avrebbe portato 1000 Harley Davidson a
Washington per festeggiare l’insediamento del proprio beniamino. I
tatuati centurioni ed i «patrioti» con vistose armi alla cintola
sembravano improbabili corsari all’arrembaggio di un sistema che li
aveva troppo a lungo ignorati. Barbari pronti a scorrazzare nei palazzi
espugnati di Washington con la foga dei soviet nel Palazzo d’Inverno. In
altre parole depositari di un ardore «rivoluzionario» che Donald Trump
ha cavalcato fino all’uscio dello studio ovale.
Nei giorni scorsi
ha provocato abbondante scalpore e polemica in rete l’endorsement di
Trump da parte di Slavoj Žižek. In realtà il filosofo sloveno ha
semplicemente sottolineato che fra il liberismo socialmente moderato di
una congenita insider come Hillary Clinton e il ribaltone «distruttivo»
del suo avversario, è quest’ultimo ad esprimere l’impeto più
plausibilmente rivoluzionario rispetto al sistema costituito.
Quello
che Žižek ha definito un «riconoscimento disperato» è la valutazione
che, fra i due programmi, sia la gestione oculata e moderata di una
globalizzazione crepuscolare, cioè il progetto Clinton, il più nocivo.
Žižek ha dato voce a chi si domanda in cuor proprio se il nichilismo
nefasto, carico di isolazionismo e xenofobie, oggi espresso in molte
parti del mondo non sia il fuoco purificatore che è necessario
attraversare per poter costruire sulle macerie della democrazia
tardo-liberista qualcosa di nuovo.
Trump, nel bene e soprattutto
nel male, ha espresso col suo catartico «vaffa» al sistema, un
weltanschauung con cui i progressisti, la sinistra del mondo, non può
evitare di continuare a misurarsi. E questo significa come avvenuto in
America valutare se sostenere candidati imperfetti come argine alle
catastrofi prorompenti o tralasciare le battaglie strategiche di
retroguardia.
E ancora, se lottare per riformare il tardo
capitalismo dall’interno come esorta a fare ad esempio Robert Reich, o
cercarvi alternative «esterne» come propone Cornel West. E in ogni caso
quali strategie adottare (ambientalismo, localismo, impegno
territoriale?) in un panorama post-ideologico, post-fattuale,
post-politico – sostanzialmente post-democratico.
Dalle urne
americane è uscita un’unica certezza: gli interrogativi si porranno, non
solo in America, sempre più urgentemente nei prossimi quattro anni. E
oltre.