Repubblica 8.11.16
Il Pd e il deficit di democrazia interna
di Piero Ignazi
“FUORI,
 fuori” è il grido che si è levato dalla platea della Leopolda quando 
Matteo Renzi ha attaccato la minoranza guidata dall’ex segretario 
Pierluigi Bersani. Questo urlo liberatorio, sollecitato e per nulla 
frenato dallo stesso Renzi, contrariamente a quanto invece aveva fatto 
Maria Elena Boschi di fronte alla selva di fischi indirizzati a Massimo 
D’Alema, dice molto dello stato dei rapporti interni al Pd, e 
dell’animus dell’attuale maggioranza.
Il Pd sta veleggiando verso 
una leadership con pulsioni cesariste. Il dominio di Renzi non dipende 
tanto dal consenso ricevuto nella sua corsa alla segreteria: i voti 
ricevuti (67%) sono stati infatti inferiori a quelli con cui Veltroni 
era arrivato alla guida del Pd nel 2007 (76%). La differenza riguarda, 
oltre a caratteristiche personali e contesti politici diversi, le 
risorse su cui Renzi ha fatto aggio: principalmente, un gruppo di sodali
 estremamente coeso e convinto, una comunità dai tratti fideistici, 
devota al capo. Una sorta di “setta” — in termini weberiani — , andata 
ad ingrossarsi nel corso del tempo mantenendo però le stesse 
caratteristiche dell’inizio. In questa specifica dinamica 
leader-seguaci, l’ammirazione deborda spesso in adulazione e 
asservimento. La critica non è ammessa, pena l’allontanamento dal 
contatto diretto e privilegiato con il capo, che comunque può sempre 
recuperare e “perdonare” l’eventuale reprobo: si veda il rientro in 
scena di Matteo Richetti.
La Leopolda dello scorso fine settimana 
ha reso evidente l’evoluzione del gruppo fondativo in assemblea 
comunitaria di fedeli. Il calore umano, la condivisione di destino, 
l’empatia fino alla trasfigurazione, che quella riunione ha espresso 
manifestano lo slittamento del Pd verso una leadership cesaristica con 
incipienti tratti carismatici (e non per nulla Renzi fa spesso 
riferimento a La Pira). È quindi impervio far coesistere posizioni 
diverse e anche antagoniste in un “partito del capo” quale si sta 
configurando il Pd. In un clima come quello emerso a Firenze non sembra 
esserci più spazio per le minoranze. Gli oppositori non sono legittimi 
portatori di opinioni diverse bensì nemici interni, «pidocchi sulla 
criniera di un purosangue», per citare Palmiro Togliatti, uno che sapeva
 come trattare i dissidenti… Ora, è vero che in nessun partito le 
opinioni in contrasto con quelle della leadership sono apprezzate. Ma vi
 sono modalità di convivenza codificate che consentono l’espressione di 
posizioni diverse attraverso la costituzione di correnti (come accadeva 
nei tempi passati alla Dc e agli altri partiti). Pensiamo al caso 
dell’attuale leader del Labour party britannico, Jeremy Corbyn. Nella 
sua lunga carriera parlamentare ha contestato la politica del “New 
Labour” di Tony Blair tanto da votare 487 volte contro il proprio 
governo. Ma nessuno ha mai pensato di espellerlo o di non ricandidarlo 
nel suo collegio. Anzi, quando si sono raccolte le firme per la 
presentazione delle candidature alla segreteria molti parlamentari 
blairiani, con grande fair play, hanno dato la loro firma affinché 
potesse presentarsi. Questo perché il Labour, come tutti i grandi 
partiti europei, è sempre stato attraversato da discussioni infuocate e 
contestazioni durissime.
Il Pd sconta invece un deficit di 
democrazia interna. Tutto il dibattito di questi anni si è concentrato 
sull’inclusione, cioè sull’apertura alla società per far partecipare 
anche i simpatizzanti al processo decisionale. È rimasta invece ai 
margini la questione del pluralismo, della pari opportunità riconosciuta
 a tutti di esprimere, e soprattutto organizzare, le proprie posizioni 
in difformità da quelle della maggioranza. Formalmente, come è ovvio, il
 Pd riconosce nel suo statuto, all’art. 7, “il rispetto del pluralismo 
delle opzioni culturali e delle posizioni politiche al suo interno come 
parte essenziale della sua vita democratica”, ma nella prassi la 
demonizzazione e la scomunica lanciata contro gli oppositori interni, 
rei di voler riconquistare la guida del partito come fosse un delitto di
 lesa maestà, svuotano di senso quelle parole. La leadership di Matteo 
Renzi non contempla condivisioni e accordi nati dalla contrattazione 
tanto da considerare con fastidio processi inclusivi come quello messo 
in atto dal vice-segretario Guerini sulla legge elettorale: contempla 
piuttosto l’adesione spassionata ai fini indicati dal leader. In questo 
clima culturale ed emotivo è difficile immaginare la convivenza con le 
minoranze. Eppure un grande partito “democratico” deve superare questa 
situazione perché altrimenti si mette sullo stesso piano dei suoi 
concorrenti, dal Movimento 5 stelle a Forza Italia, che non sono certo 
modelli da imitare, e soprattutto impoverisce la democrazia italiana.
 
