martedì 8 novembre 2016

Repubblica 8.11.16
Gli operai tentati da Donald
di Federico Rampini

NEW YORK RICORDATEVI in che stato eravamo otto anni fa. Date a Hillary la fiducia che allora avete avuto per me». Barack Obama si lancia nel suo ultimo tour de force elettorale, «con un po’ di commozione».

TRE COMIZI in un giorno, tre Stati diversi: Michigan, New Hampshire, Pennsylvania. Una sintesi geografica del “fire-wall”, muraglia antincendio che deve arginare le fughe di voti democratici. In primo luogo Obama parla agli operai metalmeccanici tentati da Donald Trump. E torna a definire Trump «caratterialmente inadatto a fare il presidente». Sui 142 milioni di elettori chiamati alle urne, sia per eleggere il presidente che per i rinnovi di Camera e Senato, oltre 41 milioni hanno votato in anticipo com’è consentito.
È l’incubo dei democratici, a lui Obama dedica la prima tappa del suo ultimo tour in campagna: Ann Arbor, Michigan, lo Stato di Detroit, culla dell’industria automobilistica. «Mi commuovo, questo probabilmente sarà il mio ultimo giorno di campagna elettorale». Poi il presidente passa all’attacco: «L’industria automobilistica era al tappeto, si è risollevata e batte i suoi record storici». Merito di un salvataggio pubblico, una breve nazionalizzazione che nel 2009 salvò General Motors e Chrysler: non furono solo i banchieri di Wall Street a ricevere soldi del contribuente. Oggi l’operaio bianco che vota Trump sembra aver dimenticato che il suo posto di lavoro lo difese Obama. Quanto all’affarista newyorchese: «Lui ha detto che bisognava lasciar fallire le case automobilistiche», ricorda il presidente.
«Se qualcuno non sa gestire un account di Twitter, voi gli dareste un arsenale nucleare?». Obama commenta così la notizia secondo cui i collaboratori di Trump gli avrebbero vietato di twittare negli ultimi giorni: le sue eruzioni di tweet alle tre di notte erano leggendarie e gli nuocevano. «Caratterialmente inadatto alla presidenza», lo definisce Obama. Questo ricorda che la posta in gioco è forse perfino maggiore per il resto del mondo. Anzitutto, perché un presidente degli Stati Uniti ha poteri pressoché illimitati solo in politica estera, può invadere o bombardare paesi stranieri a piacimento, mentre non può alzare una tassa o varare nuove spese pubbliche senza il via libera del Congresso. E poi perché questa crisi della democrazia americana coincide con l’ascesa di nuovi modelli autoritari, dalla Cina alla Russia alla Turchia, pronti a “riempire il vuoto” lasciato da un’America in ripiegamento.
Il voto di oggi rinnova anche la Camera e un terzo del Senato, ambedue a maggioranza repubblicana. Il Senato è decisivo per approvare le nomine del presidente a cominciare dalla Corte suprema. Chi tenta di sdrammatizzare l’incognita-Trump ricorda che l’America ha un sistema politico fatto di check and balance, contropoteri e bilanciamenti. Ma se vincesse la destra — Trump ha promesso ieri un trionfo «senza precedenti» — potrebbe spostare anche la Corte suprema. Inoltre, come si è visto con il comportamento destabilizzante dell’Fbi, non si può dare per scontato che esistano anticorpi sufficientemente robusti per contenere pulsioni autoritarie.
FIRE-WALL, IL MURO PER DIFENDERE QUOTA 270
I tre ultimi Stati visitati da Obama sono tutti parte di quello che i sondaggisti definiscono “muro antincendio”: la sequenza degli Stati indispensabili per garantire a Hillary la soglia magica dei 270 elettori, necessaria per conquistare la Casa Bianca. Solo di recente Michigan e Pennsylvania sono scivolati verso la zona degli Stati in bilico, o a rischio di una rimonta inaspettata di Trump, proprio a causa della classe operaia. A Philadelphia Obama cura anche l’elettorato afroamericano, meno entusiasta che nel 2008 e 2012: «Fate per Hillary quello che avete fatto per me».
L’aritmetica è complicata dal fatto che in America non basta essere cittadini per votare. Ai 220 milioni di cittadini maggiorenni (su 325 milioni di residenti totali, stranieri inclusi) bisogna togliere i condannati penali e altri privati del diritto di voto e si scende a 208 milioni. Poi però bisogna “registrarsi” nelle liste elettorali, e solo 142 milioni lo hanno fatto. Di questi, l’ultima volta votarono solo il 61%.