lunedì 7 novembre 2016

Repubblica 7.11.16
Tutto l’umanesimo che serve per salvare la democrazia
Contro i populismi, l’arte del buon governo non può ignorare l’idea di verità. Anche mettendo in discussione valori individuali
di Maurizio Ferraris

Domani un numero non grandissimo di cittadini americani sarà chiamato a pronunciarsi nell’alternativa tra Hillary Clinton e Donald Trump. È in fondo una buona cosa che negli Stati Uniti il voto sia una procedura complicata, perché se bastasse premere un pulsante sul telecomando è altamente probabile che il vincitore sarebbe Trump che, come si dice con una espressione che fa riflettere, “parla alla pancia della nazione”. Nel caso si verificasse questa eventualità, ci si potrebbe chiedere come reagirebbero gli ultimi postmoderni, che con un grande filosofo come Richard Rorty, avevano teorizzato la superiorità della democrazia sulla filosofia, e della solidarietà sull’oggettività. Il populismo non è forse la realizzazione di queste condizioni? Poco importa che gli argomenti usati dai contendenti siano corretti, basta che le procedure siano democratiche; poco importa che il vincitore possa dire cose che non stanno né in cielo né in terra, basta che il pubblico sia contento: America drinks and goes home, come cantava Frank Zappa.
Sono sicuro che, entrando in contraddizione con la propria teoria, Rorty (scomparso nel 2005) avrebbe sostenuto Clinton, ma questo non risolve, bensì acuisce, il problema, che ha due aspetti. Il primo è che pretendere di separare democrazia e verità, giustizia sociale e osservanza dei valori cognitivi, non è una buona idea. La democrazia in cui, per rispetto dei valori individuali, fosse ammessa come vera la teoria secondo cui i vaccini causano l’autismo, non sarebbe una vera democrazia, non solo perché l’inosservanza dei valori cognitivi non eviterebbe i conflitti (anzi, li aumenterebbe, in assenza di criteri oggettivi di arbitrato), ma soprattutto perché metterebbe la società su una china scivolosa (se i vaccini causano l’autismo come escludere che lo si possa curare con gli esorcismi?). Questa circostanza è al centro di un piccolo e importante libro di Julian Nida-Rümelin, Democrazia e verità, uscito in Germania nel 2006 e tradotto in italiano da Franco Angeli (gli stessi argomenti hanno trovato uno sviluppo più ampio e sistematico nel monumentale Humanistische Reflexionen, uscito da Suhrkamp). Nida-Rümelin è professore di filosofia nell’Università di Monaco ma, cosa altrettanto importante per questo discorso, ha una lunga esperienza politica, a vari livelli (è stato tra l’altro ministro della cultura nel primo governo di Gerhard Schröder).
Il fatto che il richiamo alla necessità della verità nella democrazia venga da una persona che conosce dall’interno la macchina della democrazia è particolarmente significativo. Il professore di Stanford (come era Rorty), che ha passato tutta la sua vita tra colleghi educati e tolleranti, e che si è confrontato con poste in gioco politiche che nel migliore dei casi consistevano nell’attribuzione di una cattedra, può sviluppare l’utopia di un mondo senza verità e senza realtà. Il professore che ha conosciuto la politica dall’interno (e che insegna nella stessa università in cui la rosa bianca rappresentò l’unico tentativo tedesco di resistenza contro il sovrano antirealismo di Hitler) la vede diversamente. Di fronte a interessi robusti, a questioni di vita e di morte, a conflitti che trasformano anche la più clamorosa battaglia accademica in una tempesta in un bicchier d’acqua, ci si rende conto che l’addio alla verità ha conseguenze devastanti. Da una parte, vien meno l’unica possibilità di porre un freno alla volontà umana, che è infinita, e di fornire argomenti conclusivi. Dall’altra, costituisce l’unico vero strumento di lotta contro “i grandi artisti del governo”, contro i populisti che sanno avvalersi al meglio della strepitosa indifferenza degli umani rispetto ai valori cognitivi.
E con questo veniamo al secondo problema annunciato all’inizio. Si tratta di una situazione vecchia quanto il mito della caverna raccontato da Platone nella Repubblica. I prigionieri, cioè tutti noi, sono abituati a muoversi nella penombra, mentre il filosofo, che ha visto il sole della verità, è straordinariamente goffo (diciamo, goffo come Platone a Siracusa), perché non vede niente. Il mito suggerisce due cose: che gli umani abbiano una predilezione per le tenebre, e che la luce del sole sia riservata a pochi illuminati.
Platone tirava l’acqua al suo mulino, all’idea che la democrazia sia un male e che la sola forma di governo più giusta sia quella che anacronisticamente definiremmo una tirannia illuminata. E Popper a suo tempo ha dato ottimi argomenti contro la critica platonica della democrazia. Se dunque il ricorso al tiranno illuminato è impraticabile, resta il fatto difficilmente contestabile della propensione dell’umanità alle tenebre e alle catene.
Che fare? Dal 1789 la politica si è concentrata, con ottimi argomenti, nella denuncia dell’imbecillità del tiranno, e ha fornito le istituzioni democratiche in cui ci troviamo oggi, e che, per quanto limitate, sono infinitamente superiori, soprattutto sul piano dei diritti, a quelli di qualunque stato di antico regime. Nel momento in cui il web ha dato voce e potenziale visibilità politica al resto dell’umanità, è opportuno concentrarsi sul problema complementare, della naturale propensione dell’umanità verso le tenebre.
È naturale? Certo che sì. L’animale umano è molto più inadatto alla vita rispetto alla maggior parte degli animali non umani. Non basta a se stesso, perciò ha bisogno di tecnica, per esempio dell’accogliente situazione descritta da Platone: una caverna ben riscaldata con la televisione accesa, un Truman Show in stile attico: Athens drinks and goes home. Ora, però, non dimentichiamo che la tecnica non è solo alienazione, e non finisce con i rasoi elettrici.
La tecnica è tutto ciò che gli umani hanno inventato per rimediare alle loro insufficienze, compresi il linguaggio, la scrittura, il pensiero e la cultura. L’umano non è il punto più alto del creato, bensì un prodotto contingente e difettoso, il suo cervello non possiede niente di più di quello di tanti altri animali non umani. Tuttavia, e proprio in forza della sua deficienza, l’umano ha creato delle esteriorizzazioni tecniche che ne definiscono la specificità. Contrariamente a quello che sosteneva Rousseau, l’uomo non nasce libero. Questa è la cattiva notizia.
La buona è però che può diventarlo, attraverso lo sviluppo delle sue dotazioni tecnologiche. Ecco il significato sempre attuale dell’umanesimo, che non si contrappone alla tecnica ma ne è la quintessenza, giacché l’essenza dell’umano consiste nel non averne una, e ciò che ci rende umani non è in noi, ma fuori di noi, nel mondo culturale. Questo non significa che, per esempio, il web può diventare immediatamente democrazia, come hanno teorizzato utopisti e furfanti. Significa però che il web costituisce un ingranaggio indispensabile di quella tecnologia della libertà chiamata a contrastare, come cultura (dunque come sensibilità ai valori cognitivi) la propensione alle tenebre che costituisce il tratto più appariscente e fastidioso della natura umana.